Assedio di Napoli (536)

assedio del 536

L'assedio di Napoli del 536 fu un episodio della guerra gotica combattuta tra l'Impero romano d'Oriente (o bizantino) e il regno ostrogoto per il possesso dell'Italia.

Assedio di Napoli
parte della guerra gotica
Dataottobre-novembre 536
LuogoNapoli
CausaVolontà di Giustiniano di riconquistare i territori occidentali dell'Impero
EsitoVittoria bizantina e saccheggio della città
Schieramenti
Comandanti
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Contesto storico

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra gotica (535-553), Giustiniano I e Belisario.
 
L'Impero romano d'Oriente alla morte di Giustiniano (565).

Nel 535 l'Imperatore d'Oriente Giustiniano, intenzionato a riconquistare i territori occidentali dell'Impero caduti in mano barbara nel corso del V secolo, decise di dichiarare guerra agli Ostrogoti in modo da recuperare il possesso dell'Italia, caduta in mano barbara nel 476 (caduta dell'Impero romano d'Occidente).

Egli affidò l'impresa al suo generalissimo Belisario, che aveva da poco sottomesso i Vandali nel Nord Africa e che per quest'impresa ottenne gli onori di un trionfo e rivestì il consolato per l'anno 535. Belisario conquistò in breve tempo la Sicilia e nel 536 invase la Calabria incontrando praticamente nessuna resistenza. In breve tempo giunse dunque a Napoli.

L'assedio

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Belisario tenta di convincere i Napoletani a sottomettersi spontaneamente

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Orazione di Stefano e risposta di Belisario

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Arrivato davanti alle mura di Napoli Flavio Belisario decise di dare udienza agli Ottimati dellà città chiedendo loro di sottomettersi spontaneamente ai Bizantini. Stefano, uno degli ambasciatori, disse:[1]

«Operi ingiustamente, o duce, nel guerreggiare innocenti Romani abitatori d’una cittadetta, e per guisa tenuti in freno da presidio di barbari padroni, che pur volendo in nulla possono contraddirli. Eglino di più col venire alla difesa delle nostre mura nelle mani di Teodato lasciarono i figli, le mogli, ed ogni preziosissima suppellettile; il perché se unissersi ben anche a noi per tendergli qualche insidia, estimerebbonsi meglio traditori di loro stessi che non della città nostra. Aggiugnerò in oltre, se m'é dato confessarti liberamente la verità, essere a voi medesimi perniziosa la fatta risoluzione di assalirci; imperciocché riusciti una volta ad impossessarvi di Roma, adiverrete similmente e con tutto vostro agio padroni di Napoli, e rispinti da quella non potrete aver sicurezza neppur tra noi: laonde assediandoci spendereste indarno il vostro tempo.»

 
Flavio Belisario, a destra, ormai anziano mentre chiede l'elemosina. Jacques-Louis David, Bélisaire demandant l'aumone, Musée des Beaux-Arts, Lille, Francia.

Belisario rispose:[1]

«Se bene o male, se con prudente e diritto consiglio noi siamo qui venuti nol sommettiamo all’osamina de’ Napoletani: bramiamo solo che voi attentamente ponderiate le conseguenze della nostra deliberazione, e qumdi abbracciate quanto sarà di vostro maggior profitto; e certo lo rinverrete accogliendo l’esercito dell’imperatore spedito a voi, non meno che a tutti gli altri Italiani, all’uopo di rendervi liberi, e non anteponendo ai buoni consigli i pessimi. Gli uomini intolleranti della servitù o d’altra infamia comunque volgonsi alle armi, e se la fortuna arride loro ne traggono doppio frutto, la vittoria dico e l’andar liberi delle sofferte molestie: e sia pure che rimangano sconfitti nella pugna, confortali impertanto almeno quel seguire a malincorpo un’avversa fortuna. A chi per lo contrario è dato scuotere il giogo senza i pericoli della guerra, ove a questa ricorra lo riterrà più fortemente, imperciocche la stessa vittoria, se per ventura giunge ad acquistarla, addiverragli di gravissimo nocumento; se poi ritraggasi perdente dal campo, a cumulo di tutte le altre sciagure avrà eziandio la riportata strage; ciò valga a’ Napoletani. Quanto è a Gotti con voi di stanza, sia in facoltà loro il voler piuttosto d’ora in avanti unitamente a noi obbedire al grande imperatore, o il tornare sani e salvi ai loro focolari. Abbiate poi voi tutti fermo nella mente che se, rigettate queste proposizioni, oserete venire con noi a battaglia, non potremo a meno, coll’aiuto del Nume, di accogliere ostilmente chiunque ci farà contro. Infine quando i Napoletani amino seguire le parti di Augusto io sono pronto a riceverli ed a conceder loro la somma de’ beni che facemmo dapprima sperare ai Siciliani, e su de’ quali ora eglino a torto accuserebbonci di falso giuramento.»

Belisario chiese a Stefano di riferire il suo discorso ai Napoletani.

Pastore e Asclepiodoto convincono i Napoletani a resistere

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Stefano riferì dunque ai Napoletani le parole del generale e consigliò loro di consegnare ai Bizantini la città senza resistere. Era con lui d'accordo Antioco, originario della Siria trasferitosi a Napoli per motivi commerciali.[1] Ma Pastore e Asclepiodoto, oratori contrari a Bisanzio e filo-gotici, tentarono di dissuadere i Napoletani dal consegnare la città a Belisario senza resistenza, sollecitando i Napoletani a proporre molte condizioni gravose per la resa della città, e ad obbligare con un solenne giuramento Belisario all'immediata esecuzione delle promesse.[1] Le condizioni della resa vennero scritte su un foglio e consegnate a Belisario tramite Stefano, e il generale bizantino accettò le richieste.[1] I Napoletani allora stavano quasi sul punto di aprire le porte ai Bizantini quando Asclepiodoto e Pastore li fecero cambiar idea con il seguente discorso:[1]

«Nulla v’ha da stupire che una popolazione metta a gravissimo ripentaglio sé stessa e le cose sue ed in ispecie quando, non fatto partecipe de’ proprj divisamenti alcun saggio ottimate, vuol erigersi in arbitro de’ pubblici affari. Ma noi, sendo imminente la comune rovina, non possiamo contenerci dal prestare almeno l’ultimo servigio alla patria con questa esortazione. Voi dunque, o cittadini, procacciate in tutti i modi, come vediamo, di assoggettare le vostre persone e la città a Belisario, il quale vi promette monti e mari d’oro con santissimi giuramenti. Nessuno per certo negherà convenirvi tali offerte, quando egli unitamente a queste possa eziandio obbligarsi di soggiogarvi colla guerra; conciossiaché riterremmo dementissimo chiunque non adoperasse di amicarsi al futuro signore. Ma se per lo contrario dubbia è l’impresa, né mortale può entrare idoneo mallevadore per la fortuna, non porrete voi mente alle calamita che cercate si di vostra posta trarvi addosso? Egli è certo innanzitutto che i Gotti se usciranno dell’arringo trionfanti ci danneranno, quali odiosissimi loro nemici, ad acerbe pene, consapevoli che non da necessità costretti, bensì da perfida codardia lusingati demmo opera al tradimento. Belisario anch’egli se mai giunga a vincere ne riputerà infedeli e traditori de’ nostri principi. Che più, Giustiniano stesso a diritto ci terrà ognora in freno, come disertori, con forte presidio; essendo che l’uomo trovato l’esecutore de’ suoi pravi disegni all’ottenere il compimento loro compiacisi del benefizio ricevuto: ma ben presto addivenendogli sospetto per la frode commessa l’odia e lo teme, il avendone le pruove d’infedeltà nell’animo suo. All’opposto se ora noi ci serberemo leali co’ Gotti valorosamente combattendo, questi riusciti vincitori ne ricolmeranno di grandissimi beni; ma quand’ anche la vittoria si dichiarasse pel nemico, e’ non ci negherà il perdono, dovendo essere al tutto inumano chi punisce un amore disgraziatamente fedele. Senza che, viva Iddio, qual motivo è in voi per temere cotanto un assedio dalla parte romana? Non difettiamo qui entro di vittovaglia, nessuno ci vieta o impedisce il foraggio, e tutto il dover nostro si riduce a rimanere in pace nelle proprie case, avendovi piena sicurezza mercé di queste mura, e del presidio che veglia alla difesa loro. E sì che il duce imperiale ove nutrisse qualche speranza di espugnarle non avrebbe mai, più aderito, come va intorno la voce, alle nostre gravissime condizioni. Oltre di che s’egli avesse fermo intendimento di osservare la giustizia e di procurare i nostri vantaggi non sarebbesi indotto a sbigottire i Napoletani, ed a consolidare il suo potere contro ai Gotti col mezzo d’una nostra furfanteria: chiamerebbe in vece a battaglia Teodato e le genti di lui, venendo seco loro a composizione che la città fosse il premio della vittoria, senza nostro pericolo e tradimento.»

I Napoletani decisero dunque di resistere. Belisario, saputolo, iniziò dunque l'assedio, tagliando l'acquedotto della città.[1]

La scoperta di un passaggio segreto

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Un acquedotto permise ai Bizantini di impadronirsi della città.

I Napoletani di nascosto riuscirono a chiedere aiuto al re Teodato, ma questi non mandò soccorsi.[2] Nel frattempo l'assedio continuava e nonostante il taglio dell'acquedotto la città ancora resisteva. Dopo all'incirca 20 giorni di assedio Belisario stava disperando di conquistare la città quando un isauro, esplorando l'acquedotto, scoprì un passaggio segreto:

«Nacque in tale degli Isauri la brama di conoscere la struttura dell'acquidotto, e come ne avessero i cittadini l'acqua. Entratovi pertanto, lunge dalla città e per la rottura fattavi da Belisario, a tutto bell'agio ne trascorse una parte senza rinvenirvi, in causa del taglio, un filo d'acqua. Se non che vicino alle mura fu arrestato da un sasso enorme ivi giacente per opera non umana, ma della natura stessa, mentre i vecchi artefici dell’acquidotto sollecitati a proseguire il lavoro aveanlo forato quel tanto ch’era mestieri al corso dell’acqua non già al valicare d’un uomo. Di guisa che mancava al canale una larghezza dappertutto uniforme, tale ristringendosi giunto al sasso da non accogliere uman corpo armato di lorica e scudo. Parve tuttavia all’Isauro posta mente alla faccenda, che l’esercito intiero di leggieri penetrerebbe nella città ove si dilatasse, né molto, quel foro. Il perché essendo egli di umili natali ed affatto inesperto del parlare co’ duci, pensò manifestare la cosa al patriota Paucaride, inclito soldato tra’ pavesai del condottiero, il quale ne fece tosto avvertito Belisario.»

Belisario, quando ne fu informato, ne rimase sollevato ma decise di dare un'ultima possibilità ai Napoletani di arrendersi spontaneamente, consapevole che alla presa delle città si accompagnano saccheggi e stragi, che voleva evitare, per quanto possibile, ai Napoletani.[2]

A Stefano disse dunque:[2]

«Fui le moltissime volte spettatore di conquistate città, e la sperienza m’ha apparato qual sia spessissimo in quel frangente la sorte loro. Il ferro con isfrenatezza orribile incrudelisce sino all’eccidio contro gli abitatori adulti: perdona alle femmine, sebbene avidissime di morte, per serbarle ad un vituperoso scherno, sorgente di atroci e miserandi patimenti: i fanciulli privati della libertà loro e d’ogni disciplina vengono costretti ad opere servili da odiatissimi padroni, le cui mani e’ videro tinte del paterno sangue. Vano è qui il rammentare, o amatissimo Stefano, gl’incendj, voragine delle ricchezze e del cittadinesco splendore. Or dunque mentre io mi fo a mirare come in uno specchio cotesta Napoli in preda alle medesime traversie cui soggiacquero in addietro le vinte città, sentomi tutto compassione e per lei e per voi; conciossiaché hommi già pronte macchine dalle cui rovine sperereste indarno salvarla. Increscerebbemi, vel giuro, che un’antica città popolata da seguaci di Cristo, ed anche in altri tempi da Romani, fosse avvolta in sì crudele scempio, trovandomi soprattutto io alla testa delle imperiali truppe, ed annoverando ne' miei campi molti barbari, dei quali non varrò certamente a reprimere il furore se di forza entreranno in quelle mura, pur troppo ricordevoli ancora che innanzi ad esse perderemo e consanguinei e fratelli. Or dunque finché avete in poter vostro la scelta di un più vantaggioso destino, l’appaciarvi con noi, aderite a chi vi consiglia per lo migliore, ed evitate la sovrastante calamità, dalla quale una volta oppressi, come havvi tutto a supporre, non potrete di pieno diritto accagionarne la fortuna, ma la sola pertinacia vostra.»

Visto il rifiuto dei Napoletani di arrendersi, Belisario decise di passare all'azione.

L'entrata in città dei Bizantini

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Belisario dunque affidò a Magno, con 400 soldati, e a Enne, il comandante degli Isauri, il compito di entrare in città tramite l'acquedotto, uccidere le sentinelle le guardie e poi consentire al resto dell'esercito l'entrata in città.[3] Mentre i 400 si inoltravano nell'acquedotto, Belisario informava gli altri soldati dell'attacco imminente. Fozio, figliastro di Belisario, voleva seguire i soldati nell'acquedotto, ma il patrigno glielo impedì.[3] Per distrarre il presidio gotico, in modo che non si accorgesse dei rumori dei soldati che attraversavano l'acquedotto, Belisario ordinò a Bessa di parlare con loro in gotico ma, all'esortazione di arrendersi, i Goti risposero con insulti rivolti all'Imperatore e al generale.[3] In questo modo Belisario distrasse i Goti agevolando l'impresa degli uomini di Magno e di Enne.

I soldati, usciti dall'acquedotto, finirono in una casa abitata da una signora povera. Essi zittirono la signora minacciandola di ucciderla se avesse fatto rumore.[3] In seguito i soldati, accostatesi di soppiatto alle mura, sorpresero e uccisero le sentinelle di guardia, poi con un suono di tromba diedero il segnale.[3] Belisario, allora, fece scalare le mura con scale i suoi soldati, anche se si era presentato il problema che esse erano troppo corte per la negligenza dei costruttori che non avevano osato prendere le giuste misure per rendere occultissima l'opera loro; il problema fu risolto formando all'istante una scala ogni due, ed essi riuscirono così a dominare i merli. Nel lato delle mura contiguo al mare le scale non poterono invece essere accostate, perché quel lato era difeso dagli Ebrei Napoletani, che resistevano strenuamente, consapevoli dell'odio che i Bizantini provavano per essi per essersi opposti alla resa; nonostante il nemico fosse già penetrato in città, gli Ebrei posero strenua resistenza fino all'alba, quando, attaccati da ambo i lati dagli scalatori e dalle truppe di Magno, furono volti in fuga. Una volta spalancate le porte, l'intero esercito imperiale fece ingresso a Napoli.[3]

Saccheggio

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La città fu sottoposta a saccheggio, e i soldati imperiali, soprattutto gli Unni (chiamati Massageti da Procopio), alla loro entrata massacrarono senza far distinzione di sesso e di età quanti incontravano per strada; gli Unni profanarono addirittura le Chiese, sacro luogo d'asilo, massacrando coloro che vi erano entrati nel tentativo di salvarsi:[3]

«I vincitori tutti ribollenti di sdegno, e massime quelli che nell’assedio giuntato aveano il fratello o il parente, contaminarono di enorme strage l’entrata loro, uccidendo non pietosi al sesso od all’età quanti incontravan per via. Penetrati quindi nelle case metteanvi a sacco donne, fanciulli ed ogni maniera di suppellettile; infierendo più che tutti i Massageti, i quali profanatori sin dei tempj macchiaronsi col sangue di molti vinti speranzosi là entro di salvezza.»

Tuttavia Belisario, seppur tardivamente, riuscì a fermare la strage in corso, arringando le sue truppe con il seguente discorso:[3]

«Mal noi corrispondiamo al benefizio ricevuto dal Nume, di essere ciò è fatti degni della vittoria e d’un sì glorioso trionfo, riducendo in poter nostro una città sino ad ora inespugnabile, coll’appalesarci immeritevoli di cotanta grazia; quando per lo contrario colla molta umanità nostra è mestieri diamo pruova che a buon diritto ella fu da noi soggiogata. Non vogliate adunque portare odio perpetuo ai Napoletani, né dilungarlo oltre i limiti della guerra; giusto essendo che nessun vincitore abbia più da infierire contro i vinti, imperciocché morendo costoro non uccidiamo più nemici, ma gente a noi sommessa. Ponete quindi un termine ai vostri gravissimi oltraggi, né assecondate l’ira che v’anima in guisa da permetterle ogni eccesso, turpe essendo che i vincitori dei nemici lascinsi poi vincere da lei. Sia vostro, in premio del mostrato guerresco valore, tutto il conquistato danaro, ma rendansi cui spettano donne e fanciulli; appareranno con ciò i vinti di quali amici venissero privi un tempo dalla imprudenza loro.»

Dopo questo Belisario restituì tutti i prigionieri ai Napoletani e molti poterono tornare in possesso di gran parte dei propri averi.[3]

Morti di Pastore e Asclepiodoto

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Pastore, vedendo la città in mano nemica, ebbe un attacco di apoplessia e morì. Asclepiodoto non fece fine migliore. Venne dapprima rimproverato da Stefano:[3]

«Osserva, o iniquissimo tra mortali, quante sciagure hai tu recate alla patria, col tuo favoreggiare i Gotti a danno e tradimento della pubblica nostra salvezza. Ed in fe mia che se la vittoria si fosse dichiarata pe’ barbari, tu ne avresti ottenuto il guiderdone, e ti saresti fatto innanzi ad incolparci, quantunque seguaci di migliore consiglio, siccome rei di patteggiate insidie co’ Romani. Ora nondimeno, venuta Napoli sotto l’imperiale dominio e salvati noi tutti dalla magnanimità di questo duce, tu hai l’impudenza di presentarti a lui, quasi scevro da ogni macchia verso i cittadini e le cesaree truppe!»

Asclepiodoto rispose:

«Non poni mente, o uomo illustre, che ci tributi lode con quel tuo rimprocciare la nostra benevolenza ai Gotti, imperocché nessuno all’infuori d’un animo costante prenderà mai a palleggiare co’ suoi pericolanti padroni. Né v’ha dubbio che i vincitori mi troveranno mai sempre fermo nel difendere la repubblica loro come sperimentarommi già nemico, scudo incontrastabile che un animo di sua natura fedele non cangia col variare della fortuna. Ma tu, ove le nostre vicende seguito avessero un differente corso, all’accostarsi di gente quantunque ne avresti di subito accolto le offerte condizioni, non potendo a meno chi ebbe in sorte dalla natura l’incostanza di rompere al primo timore la fede giurata ben anche ai suoi più cordiali amici.»

Poi venne ucciso dai Napoletani, furiosi con lui per averli convinti a resistere, e venne fatto da loro a pezzi. Poi cominciarono andare a caccia di Pastore, e trovato il cadavere lo esposero per la gola del borgo. In questo modo finì l'assedio di Napoli.

Conseguenze

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Secondo una tarda fonte del X secolo, la Historia Miscella di Landolfo Sagace, in seguito al sacco, Napoli si era spopolata, e Belisario, sentendosi in colpa ed esortato da Papa Silverio, decise di ripopolarla con abitanti provenienti dalle città limitrofe:

(LA)

«Bellisarius vero seduto a Papa Silverio acriter increpatus cur tanta, et talia homicidia Neapoli perpetrasset; tandem correptus, et poenitens rursum proficiscens Neapolim, et videns domus civitatis depopulatas, et vacuas, tandem reperto consilio recuperandi popidi, colligens per diversas villas neapolitanae civitatis viros ac mulieres dominus habitaturos immisit, idest Cumanos, Puteolanos, et alios plurimos Liburia degentes, et Playa, et Sola et Piscinula et Locotrocla et Summa, aliisque villis.»

(IT)

«Belisario in verità aspramente (fu) rimproverato dal diligente papa Silverio per aver perpetrato tanti e tali omicidi a Napoli; alla fine messo alle strette e pentito, di nuovo partendo per Napoli e vedendo le case della città saccheggiate e vuote, finalmente presa la decisione di ripristinare la popolazione, raccogliendo per diversi villaggi della città napoletana uomini e donne, li immise nelle case perché vi abitassero, cioè (immise) Cumani, Pozzolani e parecchi altri che vivevano a Liburia, a Chiaiano, a Sola, a Piscinola, a Trocchia e a Somma e in altri villaggi.»

Nel seguito Landolfo Sagace scrive che Belisario ripopolò successivamente Napoli con coloni provenienti dalla Sicilia, dal Sud Italia e dall'Africa.

Belisario in seguito riuscì a conquistare ai Goti gran parte dell'Italia, riuscendo a far prigioniero il loro re Vitige. I Goti elessero però re Totila, che riuscì a ribaltare la situazione conquistando molte città tra cui Napoli (543). Totila e il suo successore Teia vennero infine sconfitti da Narsete (552), che riconquistò tutta l'Italia, tra cui Napoli, ponendo dunque fine alla guerra gotica dopo 18 anni.

  1. ^ a b c d e f g Procopio, I, 8.
  2. ^ a b c Procopio, I, 9.
  3. ^ a b c d e f g h i j Procopio, I, 10.

Bibliografia

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  • Procopio, De Bello Gothico
  NODES
Idea 1
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Note 2