Ferdinando Martini

scrittore e politico italiano (1841-1928)

Ferdinando Martini (1841 – 1928), noto anche con lo pseudonimo di Fantasio, scrittore e politico italiano.

Ferdinando Martini

Citazioni di Ferdinando Martini

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  • A chi immagini viva innanzi a sé quella piccola e pallida scandinava [Barbara von Krüdener] e abbia presenti alla memoria gli scritti e gli atti suoi, s'alternano nell'animo sentimenti diversi, anzi opposti: ora si è tratti ad inchinarla con austero rispetto, ora si stenta a frenare per convenienza uno scoppio di risa; a volte pare pietosa necessità vegliarla come un'inferma, a volte vien voglia di buttarle le braccia al collo e baciati i capelli biondo-cenere quali non ha che Valeria[1], rifugiarsi con lei nelle gelate solitudini della sua Livonia[2].[3]
  • Allora era da fare l'Italia, oggi è da compierla: oggi o mai.[4]
  • Benedette figliuole! non veggo l'ora che si maritino![5]
  • Chi dice che gli italiani non sanno quello che vogliono? Su certi punti, anzi, siamo irremovibili. Vogliamo la grandezza senza spese, le economie senza sacrifici e la guerra senza morti. Il disegno è stupendo: forse è difficile da effettuare.[6]
  • Maggiore argomento di lode e più sicuro pegno di fama al Barbier è che da lui comincia la letteratura, la quale io mi fo lecito chiamare del quarto stato.
    Egli primo a nudare con mano coraggiosa e sicura le piaghe del popolo, egli primo a scagliare contro la sordida tirannide borghese, gli anátemi che sono oggi divenuti il pathos,
    des faiseurs d'emphase,
    Des tous les baladins qui dansent sur la phrase:
    egli primo a contrassegnare con marchio rovente gli sfruttatori delle rivoluzioni, ad accusarli innanzi al popolo con tale una precisa vigoria di linguaggio e tale un impeto lirico, che in Francia non aveva esempi e la cui eco si ripercuote talvolta fra noi nei Decennali e nelle Nuove poesie del Carducci [...].[7]
  • Siete troppo linfatico per un greco, troppo vivace per un olandese; parlate da mezz'ora con un uomo di cui non sapete il nome, non siete un tedesco; parlate poco, non siete francese; viaggiate senza servitori, non siete un russo; non avete ancora lodata l'Ungheria, non siete un ungherese; avete data la mancia al facchino, non siete uno svizzero; non avete le mani sudicie di tabacco, non siete uno spagnolo; non portate diamanti alla camicia, non siete un americano del sud; non vi pigliate i piedi in mano, non siete un americano del Nord. Dunque siete italiano.[8]

Attribuite

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[Errata] La frase viene spesso attribuita a Massimo d'Azeglio, talvolta in forme leggermente differenti. In realtà essa rappresenta una sintesi non completamente fedele di un pensiero espresso dallo stesso d'Azeglio ne I miei ricordi (1867): «[...] il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani.»[9][10] Molte fonti riportano che il primo a citare la frase di d'Azeglio in questa forma fosse stato Ferdinando Martini nel 1896[10] e per questo motivo qualcuno arriva ad attribuire questa versione della frase allo stesso Martini.[12][11] In realtà le prime attribuzioni a d'Azeglio di questa versione (o comunque di versioni molto simili) della frase risalgono a ben prima del 1896: Rivista sicula di scienze, letteratura ed arti (1870), conferenze di Francesco De Sanctis a Napoli (1872-1873), L'Italia vivente di Leone Carpi (1878).[9][13][14] Ne deriva che l'attribuzione a Martini è indubbiamente erronea.

Al teatro

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  • Del Martini si sapeva che s'era fatto onore nel Collegio Forteguerri di Pistoia, stimandolo il canonico Soldati, latinista di gran fama a quel tempo, uno de' suoi alunni migliori; ed entrato ne' pubblici uffici manteneva l'antico affetto verso la letteratura, in specie drammatica; tanto da esporsi alla ricaduta di una malattia gravissima per udire ancora convalescente la prima recita della Sposa Novella del Nota; la qual cosa allora fece meraviglia, ed oggi pare addirittura inverosimile a me, che non andrei a sentire una commedia del Nota neanche stando benissimo di salute. (pp. 38-39)
  • [Vincenzo Martini] Migliore, secondo i bisogni della scena e i principî dell'arte [rispetto alla precedente commedia Gli educatori], apparve Il marito in veste da camera; dove fra le inesperienze del principiante si scorsero pennellate da maestro; e quelli che furono sempre i pregi precipui dell'autore, la profonda conoscenza del patriziato fiorentino di quel tempo, la italianità dell'eloquio, la umanità dei caratteri, e il fermo proposito di sacrificare l'applauso del pubblico alla verità dei sentimenti e dei costumi; onde certi ardimenti che al Martini tolsero talvolta la gloriucola dei facili trionfi, preparandogli, s'io non m'inganno, posto non inonorato nella storia della nostra letteratura drammatica. (pp. 54-55)
  • Appena i comici rimettono fuori la testa dal lago d'acqua benedetta di cui l'ascetismo cristiano inondò il medio evo, eccoti contro di loro, lega formidabile, i padri, i santi, i sinodi, i concilî, i papi, i re, i parlamenti; fioccano sopra di essi decreti, leggi, scomuniche. Per san Tommaso non c'è nessuna differenza fra un attore e una cortigiana; per Filippo Augusto, dare ai comici è come dare al diavolo. Vadano essi intanto a piantare le loro baracche lontano dalla corte, dai tribunali, dalle scuole, dalle chiese; intanto; col tempo li coglierà più rabbiosa che mai l'ira dei vescovi ortodossi e la pedantesca austerità dei giansenisti. (pp. 192-193)
  • «Pubblico ingrato!» — esclamava la Dorval, morendo dimenticata, lei, la grande attrice del rinnovamento romantico, la Kitty Bell di Chatterton, l'Adele di Antony, la Regina di Ruy Blas, la Jane di Maria Tudor; non direbbe cosi la Desclée, se potesse per un momento alzare la testa dalle zolle brune che la cuoprono nel cimitero di Montmartre. (p. 198)
  • Anche la Desclée, come il Lachambeaudie[15], traversò fidente gli oscuri limbi della bohème, cercando con occhio avido la propria stella tra le nebbie degli orizzonti lontani; anch'ella come il Soulié[16], lo spirito ingegnoso e laborioso; come lui spese le forze della gioventù a studiare, a interpretare il terrore, la pietà, l'odio, l'amore, la vendetta, tutte le grandi passioni del cuore umano; e come lui morì precocemente, sgomentata forse da quelle indagini paurose, certamente sfinita da quelle stupende interpretazioni: Elle nous émus et elle en est morte![17] (p. 198)
  • Quando la signora Ristori andò per la prima volta in Francia, i nostri buoni vicini d'oltre Cenisio furono d'accordo, come non sono quasi mai, nell'affermare che a loro spettava il vanto di averla tratta dalla oscurità nella quale languiva per l'infingarda noncuranza degli Italiani. Andrea Maffei, che sapeva come le cose stavano, salutando a quel tempo l'attrice illustre, ammoniva:
I plausi nostri | t'erudir nell'agone ov'ora imprimi | solitarie vestigia e siedi in trono; | no, la Senna non fu; noi fummo i primi | a cingerti, o gran donna, il serto e gli ostri | di cui l'onda superba a te fa dono. (p. 199)
  • La Desclée usì dal Conservatorio nel 1855 attrice fredda, compassata, piena di pregiudizi, paurosa di ogni originalità, persuasa che l'eccellenza dell'arte stava tutta nella scrupolosa imitazione del maestro [di recitazione Beauvallet].
    Come rideva, molto tempo dopo, di quei suoi primi scrupoli, di quelle sue paure giovanili! Con quanto profonda convinzione ripeteva la sentenza del Baron[18]: «a recitare non s'insegna!» (pp. 202-203)
  • Curiosa indole quella della Desclée; indole di artista che per un nulla s'accascia a un tratto, a un tratto per un nulla s'esalta; sfida la tempesta, e alla brezza si piega; e nello sconforto e nell'entusiasmo si consuma del pari. Il volgo giudica severamente queste nature singolari, perché le giudica a casaccio; e non pensa che gli artisti quando sono tali davvero, soffrono d'un male che è necessaria condizione della loro vita: il male della fantasia. (pp. 209-210)
  • Se fra gli autori comici le opere dei quali voi volete, per la maggior gloria dell'arte e dell'Italia, esumare, ve ne ha uno il quale difetti di tutti i requisiti necessari a uno scrittore drammatico, gli è appunto Alberto Nota, soprannominato quarant'anni sono il Terenzio piemontese non so da chi, ma probabilmente da qualcuno che aveva le sue ragioni per fare un postumo oltraggio all'amico di Scipione Emiliano. (p. 225)
  • Non lo spirito di osservazione e la malizia di Gherardo de' Rossi; non la originalità né la festevolezza di Giovanni Giraud; non la conoscenza degli effetti né la padronanza scenica di Francesco Augusto Bon, neanche il comico volgaruccio di Angelo Brofferio; il Nota non ha nulla. [...]. Non un personaggio suo che sia di carne e di ossa; non breve squarcio di dialogo scritto da lui che sia vero per sostanza o per forma. Quali intenti si proponesse scrivendo non si capisce; [...]. (pp. 225-226)
  • Se Carlotta Marchionni non avesse con l'arte sua conseguito altro fine che quello di tener vivo il ricordo del prigioniero dello Spielberg[19], in que' tristi anni ne' quali l'Italia essa stessa parve tutta una vasta prigione, meriterebbe d'essere con animo grato ricordata da noi. Ma fu artista possente così, che riuscì a scaldare del proprio alito fin le aride, gelate commedie di Alberto Nota; così sapiente interpetre de' sentimenti umani da esser posta nel novero delle più grandi attrici di tutti i tempi e di tutti i paesi; [...]. (pp. 268-269)

Nell'Affrica italiana

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  • E ora invece Massaua mi appariva nell'aspetto di molte altre città del Levante, bensì più allegra e più linda. (p. 8)
  • Facile agli ormeggi, quello di Massaua è, senza contrasti, il più bel porto del Mar Rosso. (p. 10)
  • Costruita sopra un banco madreporico, che si eleva poco più di sei metri dalle acque, Massaua vista dal mare promette una quantità di belle cose; non ne mantiene alcuna a chi vi s'addentra. (p. 18)
  • Lasciamo da parte le esagerazioni di coloro per i quali Massaua è il paese della Versiera e dell'Orco, dove non si può né mangiare, né bere, né respirare, né fare alcun che d'umano, dove, novanta volte su cento, chi ci capita rischia di lasciarci le cuoia. Si può stare a Massaua bene, in molti mesi dell'anno benissimo; alcuni mercanti italiani ci vivono da un pezzo, ci vivono i nostri uffiziali, i nostri soldati, e non se ne lagnano: e ci si può vivere difatti, se non con tutte le delicature de' paesi nostri, certamente senza disagi soverchi. (p. 30)
  • Non è vero che speriamo di diffondere la civiltà in Abissinia. [...] Non si tratta di tribù selvagge e idolatre, bensì di un popolo cristiano da secoli, la cui compagine politica è secolare, nel cui paese, per secoli, conquistatori e viaggiatori tentarono imprimere tracce dell'incivilimento europeo; quel popolo non ne volle sapere: le sue capanne sono ancora quelle de'tempi biblici, i suoi costumi presenti furono conosciuti da Erodoto. Noi figuriamo di voler porre un termine alle guerre fratricide che spezzarono in quelle regioni ogni molla dell'operosità umana, e arroliamo ogni giorno e paghiamo Abissini perché si sgozzino con Abissini. Eh! via replicate a noi malinconici che in Europa siamo troppo pigiati, che in Etiopia vi sono tre o quattro abitanti per ogni chilometro quadrato, che oramai le conquiste coloniali sono un'empia necessità, ma non parlate d'incivilimento. Chi dice che s'ha da incivilire l'Etiopia dice una bugia o una sciocchezza. Bisogna sostituire una razza a razza: o questo, o niente. [...] All'opera nostra l'indigeno è un impiccio; ci toccherà dunque, volenti o nolenti, rincorrerlo, aiutarlo a sparire, come altrove le Pelli Rosse, con tutti i mezzi che la civiltà, odiata da lui per istinto, fornisce: il cannone intermittente e l'acquavite diuturna. È triste a dirsi ma pur troppo è così: i colonizzatori sentimentali si facciano coraggio: fata trahunt, noi abbiamo cominciato, le generazioni avvenire seguiteranno a spopolare l'Affrica de'suoi abitatori antichi, fino al penultimo. L'ultimo no: l'ultimo lo addestreranno in collegio a lodarci in musica, dell'avere, distruggendo i negri, trovato finalmente il modo di abolire la tratta! (pp. 60-61)
  • Barambaras Menelik... chi ha visto i ritratti di Nerone giovane se lo figuri: un po' più pingue soltanto. (p. 90)
  • Menelik ha la tunica di velluto nero, simile a quella del padre: e lo sciamma, che è della stessa forma del marghef, ma di tessuto men sottile, e senza ricami: invece è rigato, a larghi intervalli, da larghe strisce scarlatte. In capo un corno dogle di raso verde, intorno al cui lembo inferiore s'avvolge una coda di leone, segno e ricompensa dell'aver ucciso il re delle foreste. (p. 90)
  • Asmara è piuttosto un accampamento che un villaggio, e gli indigeni difatti la chiamano senfer: il campo. (p. 106)
  • Se fosse vero che le cure adoperate nel costruire la casa, nel mantenerla netta e salubre sono altrettante prove del grado di civiltà a cui un popolo è giunto, indizi della sua maggior o minore elevatezza morale; se proprio ciò fosse vero, bisognerebbe dire che gli Abissini stanno nella scala degli esseri umani, sotto a' selvaggi medesimi: i selvaggi scavano una fossa attorno le loro capanne affinché l'acqua non vi penetri; gli Abissini non fanno nemmeno questo. (pp. 107-108)
  • Gli Abissini magri tutti, di statura media e, se mai, piuttosto bassi che alti, non sono belli e neanche robusti; più belli nelle membra e più forti i Sudanesi. [...] Certo è che sono, per alcuni rispetti, mirabili. Possono fare, e per quelle strade, cinquanta, sessanta chilometri al giorno, e durare un mese senza stancarsi: circa cento in ventiquattro ore, con brevi riposi, li fecero accompagnandoci nel ritorno da Asmara e Massaua. E a dire che non si stancano si dice poco: quando più pare che debbano essere rifiniti, si mettono a correre, a fare, come dicono, la fantasia, vociando a squarcigola certe cantilene che ripetono infinite volte di seguito, infinite volte chinandosi e rialzandosi come per uno scatto. I motivi di quelle cantilene, ch'io riporto come mi furono trascritti, non valgono gran che: nella musica gli Abissini sono più indietro degli Arabi, e scusate se è poco. (pp. 109-110)
  • Gli Abissini hanno saldo il sentimento e vivo il desiderio della giustizia. (p. 122)
  • Il Buda, dunque, è un fabbro il quale, bevuto un decotto di certa erba, che veramente cagiona l'ebrietà e, in forti dosi, perfino il delirio, piglia di notte le forme di iena e se ne va in giro a fare incantesimi; le eclampsie, le epilessie, le convulsioni isteriche, il ballo di San Vito, tutti malefizi del Buda. (p. 127)
  • Ancora: il sentimento religioso fu per lo passato negli Abissini tutta una cosa col sentimento nazionale, perché il loro più costante nemico fu il mussulmano, che, notate, tentò imporre il giogo, non mai le credenze. Questa parte della storia dell'Etiopa possono non curare gli Svedesi, a noi Italiani sarebbe funesto il dimenticarla. Politicamente parlando dunque, credo che ogni propaganda, o protestante o cattolica, darà nella colonia pessimi frutti: nondimeno è giusto riferire quanto affermano gli Abissini medesimi, che, cioè, tra il missionario cattolico e il protestante corre grande divario. Il cattolico sta a sè, non cerca gli indigeni, attende che attratti dalla pietà delle opere o dalla esemplarità del costume si rivolgano a lui: il protestante invece, irrequieto, con la speditezza pertinace e febbrile delle razze nordiche, s'imbuca ne' più oscuri angoli delle capanne, s'inoltra pe' reconditi penetrali delle famiglie, e s'attacca, e tormenta, e assilla, e non lascia, cimice e mignatta ad un tempo. (pp. 134-135)
  • Le rarità di Asmara sono tre: la chiesa, le capanne di ras Alula, e la fortezza di Bet-Macà. (p. 143)
  • Questo Alula, un tempo falciatore di fieni, oggi ras e turk bascià, che probabilmente non si curò mai di lasciare traccia di sè nella storia dell'Etiopia, ne lascierà una nella storia d'Italia. Natura misteriosa che molti vantano di conoscere e che forse nessuno conosce, regalmente generoso co' suoi benaffetti, costante nella persecuzione di chi gli fu nemico una volta, durano per lui nelle regioni oggi in nostro dominio molti odi ed amori: gli odi più caldi, perché il rancore intiepidisce più tardi della riconoscenza. (pp. 147-148)
  • Gli Abissini, in generale, hanno il pensiero breve: valentissimi nell'avviluppare matasse di raggiri da dipanarsi o tagliarsi il giorno dopo. (p. 150)
  • [Su Alula Engida] Fra i suoi propositi e i suoi atti appaiono, e forse non sono, molte contradizioni. Pretende personificata in sè l'indipendenza dell'Etiopia e cerca l'amicizia degl'Italiani, crede che le collere celesti lo puniscano e puniscano il suo popolo dell'aver portato le armi contro noi cristiani, e affila la spada di ribelle per ferire Menelik, cristiano anche lui. Prega ogni giorno, affinché nuove miserie sieno risparmiate all'Abissinia, ed è impaziente di inasprire le miserie antiche della guerra e della carestia. (pp. 151-152)
  • Le iene, vili, non sono temibili; osano d'aggredire bambini rifiniti, ma un adulto le allontana con un colpo di tosse, la luce di un fiammifero, un movimento qualsiasi. Il leopardo, finché non s'è cibato dell'uomo, usa prudenza: quando l'ha assaggiato, sfida ogni pericolo per rinnovare il banchetto. (p. 179)
  • Gli Abissini non sono una gente giovane di fede ingenua, che aspetti di snebbiarsi: sono un popolo vecchio e corrotto e perciò divoto negli atti, scrupoloso nelle pratiche religiose, ma senza affetto interiore; capacissimi di ribellarsi a chi tenti di offendere quelli scrupoli o di mutare quelle pratiche, incapaci e incuranti di trarre dalla fede insegnamenti alla vita. Popoli di credenti, sta bene: ma che vuol essere dispensato dall'osservare i comandamenti di Dio. (p. 199)
  • [Sui bogo] Credenze religiose poche e così indeterminate che è forse improprio dirle credenze: non chiese, non riti; si chiamano cristiani e, alla pari degli Abissini tutti, morrebbero di fame piuttosto che mangiar carne maccellata da' musulmani o di lepre o di struzzo o di elefante, cibi da' quali i musulmani non rifuggono: ma per essere cristiani manca loro una cosa di qualche importanza: il battesimo. Onorano la Vergine ma non la sanno madre di Cristo, e neanche del Cristo hanno idea molto chiara: lo invocano se tarda la pioggia o temono qualche malanno: allora le donne cantano in processione: Egizio ma kerama Kristos: Cristo Signore, abbi pietà di noi. (p. 223)
  • I Bogos dunque non hanno veruna nozione di Dio, non sanno cosa sia morale: per loro ogni atto è lecito quando non offende il diritto altrui. Si punisce per conseguenza il furto e l'adulterio, si da l'amante in mano al marito con facoltà di venderlo o ucciderlo; ma l'usura non macchia la fama, e la prostituzione è onorata: onorati del pari il perdono perché prova d'animo mite, e il rancore perché prova d'animo forte: l'ozio reputato il solo fine, la veramente desiderabile condizione della vita. E nonostante quella fitta tenebria degli animi, i delitti fra i Bogos sono rari. (pp. 223-224)

Il diario eritreo

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Volume primo

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  • Ah! gl'Inglesi! che cosa hanno fatto di uno scoglio come Aden. [...] In Aden molto commercio: tutto il caffè, le pelli ci si riversano dall'interno dell'Arabia: solo Hodeida fa commercio diretto. Moka, come città, è quasi abbandonata appunto perché vinta ormai da Hodeida. Tutte le rimanenti plaghe di piantagioni mandano ad Aden. Ma ciò che gli Inglesi hanno ottenuto di veramente importante è d'infondere nell'uomo di colore la persuasione della superiorità dell'uomo bianco. Il che induce nel nero un rispetto e tiene il bianco in un prestigio del quale non so se nella nostra colonia si veggono ancora gli esempi. (10 gennaio 1897; p. 15)

Incipit di Donne, salotti e costumi

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Una sera del maggio 1810, Alfonso di Lamartine, appena diciannovenne, in una diligenza sconquassata e seduto accanto al cocchiere, entrava per la porta San Gallo in Firenze. Poco innanzi, sua madre assestando la camera di lui aveva trovato una rosa appassita, delicatamente avvolta in un pezzo di mussolina, e dei versi:
Ah! repose à jamais dans ce sein qui t'abrite
Rose, qui mourus sous ses pas,
Et compte sur ce cœur combien de fois palpite
Un rêve qui ne mourra pas!

Citazioni su Ferdinando Martini

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  • Ferdinando Martini ha raccontato da par suo l'abbaglio di quel canonico purista, che imbattutosi in un ormare, riempì Toscana delle sue discettazioni, finché mutata in i la prima gambetta dell'emme e questo mutato in enne, dal restauro risultò un altro acerbo verbo. (Leo Pestelli)
  1. Valérie, ou, Lettres de Gustave de Linar à Ernst de G…, romanzo della Krüdener.
  2. Regione storico-geografica baltica.
  3. Da Di palo in frasca, E. Sarasino librajo editore, Modena, 1890, pp. 140-141.
  4. 20 gennaio 1916, citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 628.
  5. Da Fra un sigaro e l'altro, p. 173; citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 366.
  6. Da Lettere 1860-1923; citato in Domenico Quirico, Adua: la battaglia che cambiò la storia d'Italia, Mondadori, 2004, p. 99. ISBN 8804526815
  7. Da Simpatie (studi e ricordi), R. Bemporad & Figlio, Firenze, 1909, p. 311.
  8. Da A zonzo, 1900.
  9. a b c Cfr. C. Gigante, Fatta l'Italia, facciamo gli Italiani. Appunti su una massima da restituire a d'Azeglio, Rivista europea di studi italiani, 2011, pp. 5–15; riportato in parte in Rivista-incontri.nl.
  10. a b c Cfr. "Fatta l'Italia, bisogna fare gli Italiani", StudiCassinati.it.
  11. a b Cfr. Magdi Allam, Io amo l'Italia: ma gli italiani la amano?, Edizioni Mondadori, 2006, p. 255. ISBN 8804556552
  12. Cfr. (EN) Timothy Baycroftm e Mark Hewitson, What Is a Nation?: Europe 1789-1914, OUP Oxford, 2006, p. 256. ISBN 0191516287
  13. Citato in Rivista sicula di scienze, letteratura ed arti, vol. 3, 1870, p. 507.
  14. Citato in Leone Carpi, L'Italia vivente: aristocrazia di nascita e del denaro-borghesia-clero burocrazia; studi sociali, F. Vallardi, 1878, p. 229.
  15. Pierre Lachambeaudie (1806 – 1872), scrittore e poeta francese.
  16. Frédéric Soulié (1800 – 1847), romanziere e drammaturgo francese.
  17. Ci ha commossi ed è morta!
  18. Michel Baron, pseudonimo di Michel Boyron (1653 – 1729), attore e drammaturgo francese.
  19. Nella fortezza dello Spielberg fu detenuto Silvio Pellico, autore della Francesca da Rimini interpretata dalla Marchionni.

Bibliografia

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