Giacomo Leopardi

poeta, filosofo, scrittore e filologo italiano (1798-1837)

Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi (1798 – 1837), poeta, filosofo, scrittore, filologo e glottologo italiano.

Giacomo Leopardi

Citazioni di Giacomo Leopardi

modifica
  • [Ultime parole, rivolte alla sorella di Antonio Ranieri] Aprimi quella finestra... fammi veder la luce.[fonte 1]
  • Credere una cosa perché si è udito dirla, e perché non si è avuta cura di esaminarla, fa torto all'intelletto dell'uomo.[fonte 2]
  • [A Vittorio Alfieri] E tu nemica | la sorte avesti pur: ma ti rimbomba | fama che cresce e un dì fia detta antica.[fonte 3]
  • La condizione progressiva della società non mi riguarda affatto. La mia, se non è retrograda, è eminentemente stazionaria.[fonte 4]
  • Non mi dir più che m'abbia cura, perché son guarito e sano come un pesce in grazia dell'aver fatto a modo mio, cioè non aver usato un cazzo di medicamenti [...].[fonte 5]
  • [La catacresi] [...] la qual figura differisce sostanzialmente dalla metafora, in quanto la metafora trasportando la parola a soggetti nuovi e non propri, non le toglie per questo il significato proprio (eccetto se il metaforico a lungo andare non se lo mangia, connaturandosi col vocabolo) ma, come dire, glielo accoppia con un altro o con più d'uno, raddoppiando o moltiplicando l'idea rappresentata da essa parola. Doveché la catacresi scaccia fuori il significato proprio e ne mette un altro in luogo suo; talmente che la parola in questa nuova condizione esprime un concetto solo come nell'antica, e se lo appropria immediatamente per modo che tutta quanta ell'è, s'incorpora seco lui. [...] Laddove se tu chiami lampade il sole, come fece Virgilio, quantunque la voce «lampade» venga a dimostrare il «sole», non perciò si stacca dal soggetto suo proprio, anzi non altrimenti ha forza di dare ad intendere il sole, che rappresentando quello come una figura di questo. E veramente le metafore non sono altro che similitudini o comparazioni raccorciate.[fonte 6]
  • Molti provano un sentimento d'indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d'una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l'umiltà della sua sepoltura. Ma tu non puoi avere idea d'un altro contrasto, cioè di quello che prova un occhio avvezzo all'infinita magnificenza e vastità de' monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente ad interessare e animar la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppur il nome, o si domanda non come della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope magnos Torquati cineres, come dice l'iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo monumento, temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso.[fonte 7]
  • [Sul Manuale di Epitteto] Non poche sentenze verissime, diverse considerazioni sottili, molti precetti e ricordi sommamente utili, oltre una grata semplicità e dimestichezza del dire, fanno assai prezioso e caro questo libricciuolo.[fonte 8]
  • [Al fratello Carlo] Ti felicito sommamente del tuo nuovo amore, e altrettanto mi dispiacerebbe che a Pasqua fosse cominciata per te la Quaresima. Veramente non so qual migliore occupazione, si possa trovare al mondo che quella di fare all'amore, sia di primavera o d'autunno; e certo che il parlare ad una bella ragazza vale dieci volte più che girare, come io fo, attorno all'Apollo di Belvedere ed alla Venere Capitolina.[fonte 9]

I – All'Italia

modifica
  • Piangi, che ben hai donde, Italia mia. (v. 18)
  • L'armi, qua l'armi: io solo | combatterò, procomberò sol io. | Dammi, o ciel, che sia foco | agl'italici petti il sangue mio. (vv. 37-40)

III – Ad Angelo Mai: quand'ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica

modifica
  • Italo ardito, a che giammai non posi | di svegliar dalle tombe | i nostri padri? ed a parlar gli meni | a questo secol morto, al quale incombe | tanta nebbia di tedio? (vv. 1-5)
  • Ahi ahi, ma conosciuto il mondo | non cresce, anzi scema, e assai più vasto | l'etra sonante e l'alma terra e il mare | al fanciullin, che non al saggio appare. (vv. 87-90)
  • Amore, | amor, di nostra vita ultimo inganno, | t'abbandonava. Ombra reale e salda | ti parve il nulla, e il mondo | inabitata piaggia. (vv. 128-132)
  • Da te fino a quest'ora uom non è sorto, | o sventurato ingegno, | pari all'italo nome, altro ch'un solo, | solo di sua codarda etate indegno, | allobrogo feroce, a cui dal polo | maschia virtù, non già da questa mia | stanca ed arida terra, | venne nel petto; onde privato, inerme | (memorando ardimento!) in su la scena | mosse guerra a' tiranni: almen si dia | questa misera guerra | e questo vano campo all'ire inferme | del mondo. Ei primo e sol dentro all'arena | scese, e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto | silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto. || Disdegnando e fremendo, immacolata | trasse la vita intera, | e morte lo scampò dal veder peggio. | Vittorio mio, questa per te non era | età né suolo. Altri anni ed altro seggio | conviene agli alti ingegni. (vv. 151-171)

IV – Nelle nozze della sorella Paolina

modifica
  • Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta. (v. 30)
  • Donne, da voi non poco | la patria aspetta [...] (vv. 31-32)
  • Ad atti egregi è sprone | amor, chi ben l'estima, e d'alto affetto | maestra è la beltà. (pp. 46-48)

IX – Ultimo canto di Saffo

modifica
  • Arcano è tutto, | fuor che il nostro dolor. (vv. 45-46)
  • Negletta prole | nascemmo al pianto, e la ragione in grembo | de' celesti si posa. (vv. 46-48)
  • Virtù non luce in disadorno ammanto. (v. 53)
  • Vivi felice, se felice in terra | visse nato mortal. (vv. 60-61)

X – Il primo amore

modifica
  • Tornami a mente il dì che la battaglia | d'amore sentii la prima volta, e dissi: | oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia! (vv. 1-3)

XI – Il passero solitario

modifica
  • D'in su la vetta della torre antica, | passero solitario, alla campagna | cantando vai finché non more il giorno; | ed erra l'armonia per questa valle. (vv. 1-4)
  • Tu, solingo augellin, venuto a sera | del viver che daranno a te le stelle, | certo del tuo costume | non ti dorrai; ché di natura è frutto | ogni vostra vaghezza. (vv. 45-49)
  • A me, se di vecchiezza | la detestata soglia | evitar non impetro, | quando muti questi occhi all'altrui core, | e lor fia vòto il mondo, e il dì futuro | del dì presente più noioso e tetro, | che parrà di tal voglia? | che di quest'anni miei? che di me stesso? | Ahi! pentirommi, e spesso, | ma sconsolato, volgerommi indietro. (vv. 50-59)

XII – L'infinito

modifica
 
Manoscritto de L'infinito
  • Sempre caro mi fu quest'ermo colle, | e questa siepe, che da tanta parte | dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. (vv. 1-3)
  • Ma, sedendo e mirando, interminati | spazi di là da quella, e sovrumani | silenzi, e profondissima quiete | io nel pensier mi fingo; ove per poco | il cor non si spaura. (vv. 4-8)
  • Così tra questa | immensità s'annega il pensier mio; | e il naufragar m'è dolce in questo mare. (vv. 13-15)

Citazioni su L'infinito

modifica
  • Leopardi era dedito alle pratiche solitarie. Con tutto ciò, un grande poeta. La prima versione della famosa poesia L'infinito, all'ultimo verso non suonava "... e naufragar m'è dolce in questo mare", bensì "... e naufragar m'è dolce in questa mano". Probabilmente l'aveva scritta in stato di tensione autoerotica. (Marcello Marchesi)

XIII – La sera del dì di festa

modifica
  • Dolce e chiara è la notte e senza vento. (v. 1)
  • Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno | appare in vista, a salutar m'affaccio, | e l'antica natura onnipossente, | che mi fece all'affanno. A te la speme | nego, mi disse, anche la speme; e d'altro | non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. (v. 10-16)
  • Ecco è fuggito | il dì festivo, ed al festivo il giorno | volgar succede, e se ne porta il tempo | ogni umano accidente. (vv. 30-33)

XIV – Alla luna

modifica
  • Oh come grato occorre | nel tempo giovanil, quando ancor lungo | la speme e breve ha la memoria il corso, | il rimembrar delle passate cose, | ancor che triste, e che l'affanno duri! (vv. 12-16)

XVII – Consalvo

modifica

XVIII – Alla sua donna

modifica
  • Ma non è cosa in terra | che ti somigli; e s'anco pari alcuna | ti fosse al volto, agli atti, alla favella, | saria, così conforme, assai men bella. (vv. 19-22)

XXI – A Silvia

modifica
  • Silvia, rimembri ancora | quel tempo della tua vita mortale, | quando beltà splendea | negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, | e tu, lieta e pensosa, il limitare | di gioventù salivi?. (vv. 1-6)
  • Io, gli studi leggiadri | talor lasciando e le sudate carte, | ove il tempo mio primo | e di me si spendea la miglior parte, | [...] (vv. 15-18)
  • O natura, o natura | perché non rendi poi | quel che prometti allor? Perché di tanto | inganni i figli tuoi? (vv. 35-38)
  • All'apparir del vero | tu, misera, cadesti: e con la mano | la fredda morte ed una tomba ignuda | mostravi di lontano. (vv. 60-63)

XXII – Le ricordanze

modifica
  • Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea | tornare ancor per uso a contemplarvi | sul paterno giardino scintillanti, | e ragionar con voi dalle finestre | di questo albergo ove abitai fanciullo, | e delle gioie mie vidi la fine. | Quante immagini un tempo, e quante fole | creommi nel pensier l'aspetto vostro | e delle luci a voi compagne! allora | che, tacito, seduto in verde zolla, | delle sere io solea passar gran parte | mirando il cielo, ed ascoltando il canto | della rana rimota alla campagna! (vv. 1-13)
  • Né mi diceva il cor che l'età verde | sarei dannato a consumare in questo | natio borgo selvaggio, intra una gente | zotica, vil; cui nomi strani, e spesso | argomento di riso e di trastullo, | son dottrina e saper [...]. (vv. 28-33)
  • [...] dolce per sé; ma con dolor sottentra | il pensier del presente, un van desio | del passato [...]. (vv. 58-60)
  • O speranze, speranze; ameni inganni | della mia prima età! (vv. 77-78)

XXIII – Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

modifica
  • Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, | silenziosa luna? (vv. 1-2)
  • Nasce l'uomo a fatica, | ed è rischio di morte il nascimento. | Prova pena e tormento | per prima cosa; e in sul principio stesso | la madre e il genitore | il prende a consolar dell'esser nato. (vv. 39-44)
  • Perché reggere in vita | chi poi di quella consolar convenga? | Se la vita è sventura, | perché da noi si dura? (vv. 53-56)
  • Che sia questo morir, questo supremo | scolorar del sembiante, | e perir della terra, e venir meno | ad ogni usata, amante compagnia. (vv. 65-68)
  • E tu certo comprendi | il perché delle cose, e vedi il frutto | del mattin, della sera, | del tacito, infinito andar del tempo. (vv. 69-72)
  • A me la vita è male. (v. 104)
  • Dimmi: perché giacendo | a bell'agio, ozioso, | s'appaga ogni animale; | me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? (vv. 129-132)
  • Forse s'avess'io l'ale | da volar su le nubi, | e noverar le stelle ad una ad una, | o come il tuono errar di giogo in giogo, | più felice sarei, dolce mia greggia, | più felice sarei, candida luna. (vv. 133-138)
  • [...] forse, in qual forma, in quale | stato che sia, dentro covile o cuna, | è funesto a chi nasce il dì natale. (vv. 141-143)

Citazioni sul Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

modifica
  • Si ricordi come Leopardi per un certo tempo abbia amato le falsificazioni filologiche e l'abbia scherzosamente praticate come dilettantismo artistico. Ma ora lo stadio dell'Inno a Nettuno è superato. La mistificazione è divenuta manifestazione del proprio io. Non pel desiderio di travestirsi, ma per conoscere e rappresentare se stesso e s'immedesima in quel pastore dell'Asia. Il sentimento e la coscienza che il più proprio del suo pensiero, la sua filosofia e la sua religione, sia divenuto del tutto estraneo all'Europa occidentale, che egli sia un anacronista o un dépaysé[1], un arcade emigrato, non viene invero espresso immediatamente, ma costituisce il fondamento della poesia. Perciò fa un effetto di così straniato ed intimo, così artistico e originario, così esotico e leopardiano, così privo di costume e primigenio, moderno e senza tempo. (Karl Vossler)

XXIV – La quiete dopo la tempesta

modifica
  • Ecco il sereno | rompe là da ponente, alla montagna: | sgombrasi la campagna, | e chiaro nella valle il fiume appare.[2] (vv. 4-7)
  • |Piacer figlio d'affanno; | [...]. (v. 32)
  • O natura cortese, | son questi i doni tuoi, | questi i diletti sono | che tu porgi ai mortali. Uscir di pena | è diletto fra noi. | Pene tu spargi a larga mano; il duolo | spontaneo sorge e di piacer, quel tanto | che per mostro e miracolo talvolta | nasce d'affanno, è gran guadagno. (vv. 42-50)
  • Umana | prole cara agli eterni! assai felice | se respirar ti lice | d'alcun dolor: beata | se te d'ogni dolor morte risana. (vv. 50-54)

XXV – Il sabato del villaggio

modifica
 
Manoscritto de Il sabato del villaggio
  • La donzelletta vien dalla campagna, | in sul calar del sole, | col suo fascio dell'erba; e reca in mano | un mazzolin di rose e viole, | onde siccome suole, | ornare ella si appresta | dimani, al dì di festa, il petto e il crine. (vv. 1-7)
  • Questo di sette è il più gradito giorno, | pien di speme e di gioia: | diman tristezza e noia | recheran l'ore, ed al travaglio usato | ciascuno in suo pensier farà ritorno. (vv. 38-42)
  • Garzoncello scherzoso, | cotesta età fiorita | è come un giorno d'allegrezza pieno, | giorno chiaro, sereno, | che precorre alla festa di tua vita. | Godi, fanciullo mio; stato soave, | stagion lieta è cotesta. | Altro dirti non vo'; ma la tua festa | ch'anco tardi a venir non ti sia grave. (vv. 43-51)

Citazioni su Il sabato del villaggio

modifica
  • Mi spiego Fefé, è come un'intima insoddisfazione che tengo dentro. Per esempio tu sai quanto mi piace l'uva, ah? Be', a me l'uva mi piace più quando non ci sta che quando ci sta. Quando ci sta l'uva, Fefé, io tengo voglia di pere. Mi spiego? [...] Per me non è tanto importante l'uva in se stessa, quanto la voglia che ho d'uva, un po' come quella poesia che mi piace tanto, Fefé, dove dice che il sabato è meglio assai della domenica. (Divorzio all'italiana)
  • Nel Sabato del villaggio la scena poetica che avrebbe dovuto suggerire coi suoi stessi tocchi il pensiero della gioia aspettata, che è unica e vera gioia, della gioia di fantasia, è commentata da una critica riflessione e appesantita da un allegorizzamento, che prende forma di rettorica esortazione al «garzoncello scherzoso». (Benedetto Croce)
  • Secondo Leopardi, il più bel giorno della settimana non è la domenica, ma il sabato, perché precede la domenica; mentre la domenica si è tristi, pensando al lunedì. Ma ormai tutti han letto l'immortale canto, epperò il venerdì sera dicono: «Che gioia, domani è sabato, il più bel giorno della settimana!», mentre l'indomani pensano con tristezza alla domenica. Ragion per cui siamo più felici il venerdì che il sabato; e invece che Il sabato Leopardi avrebbe fatto meglio a scrivere Il venerdì, o addirittura Il giovedì del villaggio, se si pensa che il giovedì, precedendo il più bel giorno della settimana, viene ad essere esso stesso il più bello, sempre per quella teoria che la vigilia d'un lieto giorno è più bella che il lieto giorno medesimo. (Achille Campanile)

XXVI – Il pensiero dominante

modifica
  • Sempre i codardi, e l'alme | ingenerose, abbiette | ebbi in dispregio. (vv. 53-55)
  • Di questa età superba, | che di vote speranze si nutrica, | vaga di ciance, e di virtù nemica; | stolta, che l'util chiede, | e inutile la vita | quindi più sempre divenir non vede; | maggior mi sento. (vv. 59-65)
  • Pregio non ha, non ha ragion la vita | se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto. (vv. 80-81)
  • Angelica beltade! | Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro, | quasi una finta imago | il tuo volto imitar. Tu sola fonte | d'ogni altra leggiadria, | sola vera beltà parmi che sia. (vv. 130-135)

Citazioni su Il pensiero dominante

modifica
  • Perché è evitata la parola ["amore"] e dissimulata la chiave? Evidentemente di fronte alla novità dell'esperienza essa sarebbe apparsa troppo logora, perché ogni appicco a cose già passate e già esistite avrebbe potuto dare l'impressione di uno sminuimento. "Io non ho nome per ciò". (Karl Vossler)

XXVII – Amore e Morte

modifica
  • Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte | ingenerò la sorte. | Cose quaggiù sì belle | Altre il mondo non ha, non han le stelle. (vv. 1-4)
  • Quando novellamente | nasce nel cor profondo | un amoroso affetto, | languido e stanco insiem con esso in petto | un desiderio di morir si sente: | come, non so: ma tale | d'amor vero e possente è il primo effetto. (vv. 27-33)
  • Poi, quando tutto avvolge | la formidabil possa, | e fulmina nel cor l'invitta cura, | quante volte implorata | con desiderio intenso, | morte, sei tu dall'affannoso amante! (vv. 45-50)

XXVIII – A se stesso

modifica
  • Amaro e noia | la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. (vv. 8-9)
  • [...] l'infinita vanità del tutto. (v. 16)

XXIX – Aspasia

modifica
  • Torna dinanzi al mio pensier talora | il tuo sembiante, Aspasia. (vv. 1-2)
  • Raggio divino al mio pensiero apparve, | donna, la tua beltà. Simile effetto | fan la bellezza e i musicali accordi. (vv. 33-35)
  • Pur quell'ardor che da te nacque è spento: | perch'io te non amai, ma quella Diva | che già vita, or sepolcro, ha nel mio core. (vv. 77-79)
  • Già del fato mortale a me bastante | e conforto e vendetta è che su l'erba | qui neghittoso immobile giacendo, | il mar la terra e il ciel miro e sorrido. (vv. 109-112)

XXXI – Sopra il ritratto di una bella donna

modifica
  • Tal fosti: or qui sotterra | polve e scheletro sei. Su l'ossa e il fango | immobilmente collocato invano, | muto, mirando dell'etadi il volo, | sta, di memoria solo | e di dolor custode, il simulacro | della scorsa beltà. (vv. 1-7)
  • Natura umana, or come, | se frale in tutto e vile, | se polve ed ombra sei, tant'alto senti? | Se in parte anco gentile, | come i più degni tuoi moti e pensieri | son cosí di leggieri | da sí basse cagioni e desti e spenti? (vv. 50-56)

Citazioni su Sopra il ritratto di una bella donna

modifica
  • In uno dei suoi canti estremi, nel canto Sopra il ritratto di una bella donna, vediamo come egli scorga un motivo di dubbio insolubile non già nel contrasto tra la bellezza femminile e l'opera dissolvitrice della morte, bensì nel contrasto fra la distruzione che la morte ha compiuto di quella bella forma corporea e gli ineffabili altissimi sentimenti che quella ispirò un tempo:
    Natura umana, or come | se frale in tutto e vile, | se polve ed ombra sei, tant'alto senti?
    La nobiltà dell'uomo, così come la sua beatitudine, il Leopardi ripone nella sua capacità di sentire: né è senza significato il fatto che nelle sue pagine, in quelle della giovinezza come in quelle della maturità l'epiteto divino si accompagni così di frequente alle espressioni che si riferiscono al sentimento. (Mario Fubini)

XXXII – Palinodia al marchese Gino Capponi

modifica
  • Errai, candido Gino; assai gran tempo, | e di gran lunga errai. Misera e vana | stimai la vita, e sovra l'altre insulsa | la stagion ch'or si volge. (vv. 1-4)

XXXIII – Il tramonto della luna

modifica
  • [...] scende la luna; e si scolora il mondo [...]. (v. 12)

XXXIV – La ginestra o il fiore del deserto

modifica
  • Qui su l'arida schiena | del formidabil monte | sterminator Vesevo, | la qual null'altro allegra arbor né fiore, | tuoi cespi solitari intorno spargi, | odorata ginestra, | contenta dei deserti. (vv. 1-7)
  • Questi campi cosparsi | di ceneri infeconde, e ricoperti | dell'impietrata lava, | che sotto i passi al peregrin risona; | dove s'annida e si contorce al sole | la serpe, e dove al noto | cavernoso covil torna il coniglio; | fûr liete ville e cólti, | e biondeggiâr di spiche, e risonâro | di muggito d'armenti; | fûr giardini e palagi, | agli ozi de' potenti | gradito ospizio; e fûr città famose, | che coi torrenti suoi l'altèro monte | dall'ignea bocca fulminando oppresse | con gli abitanti insieme. Or tutto intorno | una ruina involve, | ove tu siedi, o fior gentile, e quasi | i danni altrui commiserando, al cielo | di dolcissimo odor mandi un profumo, | che il deserto consola. A queste piagge | venga colui che d'esaltar con lode | il nostro stato ha in uso, e vegga quanto | è il gener nostro in cura | all'amante natura. E la possanza | qui con giusta misura | anco estimar potrà dell'uman seme, | cui la dura nutrice, ov'ei men teme, | con lieve moto in un momento annulla | in parte, e può con moti | poco men lievi ancor subitamente | annichilare in tutto. | Dipinte in queste rive | son dell'umana gente | «Le magnifiche sorti e progressive». | Qui mira e qui ti specchia, | secol superbo e sciocco, | che il calle insino allora | dal risorto pensier segnato innanti | abbandonasti, e vòlti addietro i passi, | del ritornar ti vanti, | e procedere il chiami. (vv. 17-58)
  • [...] obblio | preme chi troppo all'età propria increbbe.[fonte 10] (vv. 68-69)
  • Non so se il riso o la pietà prevale. (v. 201)
  • E tu, lenta ginestra, | che di selve odorate | queste campagne dispogliate adorni, | anche tu presto alla crudel possanza | soccomberai del sotterraneo foco, | che ritornando al loco | già noto, stenderà l'avaro lembo | su tue molli foreste. (vv. 297-304)

Citazioni sui Canti

modifica
  • Sulle sue idee, certamente c'è poco da equivocare. Ma dove, principalmente, egli le espose e le ragionò?
    Nelle grandi liriche, nelle composizioni in cui la fantasia e l'estro si accendono al calor bianco e cercano di raggiungere per ineluttabili scorciatoie i significati assoluti. È lo stato più estraneo alla coscienza vera, al giudizio accettato dalla ragione, quello che genera canti come A se stesso o La Ginestra. In quella loro altezza disperata si confonde davvero con la negazione una più alta e improvvisa accettazione dell'idea divina. (Giovanni Artieri)

Epistolario

modifica

All'Ab. Francesco Cancellieri, a Roma.
Recanati, 6 aprile 1816.
Pregiatissimo signore, Il mio signor zio mi ha comunicata la di lei lettera che in parte riguarda me. Da essa ho appreso ch'ella soffre ancora molti incommodi di salute. L'accerto che io sento di ciò un vivissimo dispiacere, e con ribrezzo m'induco a molestarla, sperando però ch'ella non vorrà prendersi per l'incommodo che le do maggior briga di quella che richiede l'affare per se stesso molto poco interessante.

Citazioni

modifica
  • Così ella vede che il Monti è assai più famoso per l'Iliade che per il Persio. (dalla lettera ad Antonio Fortunato Stella, 6 dicembre 1816; vol. I, p. 8)
  • Amico e cugino carissimo, Tengo ben volontieri l'invito che mi fate di lasciar da parte le cerimonie parlando con voi, e però non vi domando scusa dell'errore che ho preso con un giudizio troppo precipitato, non però calunnioso, come voi dite, scambiando un poco i vocaboli, perché oltreché il dir male di me non sarebbe stato pur peccato veniale, lo scherzare così urbanamente come si facea in quell'articolo, e con così poche parole, e sopra cosa da nulla, non potea fare che persona del mondo se ne offendesse. (dalla lettera al conte Francesco Cassi, 5 maggio 1817; vol. I, p. 33)
  • Signore mio carissimo, L'erudizione che ella ha trovato nelle note all' inno a Nettuno, in verità è molto volgare, e a me è paruto di scrivere quelle note in Italia; ma in Germania o in Inghilterra me ne sarei vergognato. Io sono andato un pezzo in traccia della erudizione più pellegrina e recondita, e dai 13 anni ai 17 ho dato dentro a questo studio profondamente, tanto che ho scritto da sei a sette tomi non piccoli sopra cose erudite (la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato); e qualche letterato straniero che è in Roma e che io non conosco, veduto alcuno degli scritti miei, non li disapprova, e mi facea esortare a divenire, diceva egli, gran filologo. [...] Innamorato della poesia greca, volli fare come Michelangelo che sotterrò il suo Cupido, e a chi dissotterrato lo credea d'antico portò il braccio mancante. (dalla lettera a Pietro Giordani, 30 maggio 1817; vol. I, pp. 34-35)
  • Certo che non voglio vivere tra la turba: la mediocrità mi fa una paura mortale [...]. (dalla lettera a Pietro Giordani, 26 settembre 1817; vol. I, p. 57)
  • Carissimo cugino, Avendo avuta occasione di pubblicare un inno a Nettuno, e ricordandomi di quello che voi scriveste sulla medesima divinità per le nozze Perticari e Monti, ho voluto mandarvi una copia del mio opuscolo, non già perché lo paragonaste col vostro, ma perché aveste il diletto di vedervi vincitore senza combattere. La copia che vi mando è della seconda edizione molto più corretta della prima, che è stata fatta l'aprile passato. Come vedete, la cosa non è di questi giorni, ed io già ci vedo mille difetti, sì che a voi, che per l' amicizia me li perdonerete, volentieri la mando in segno di confidenza, ma non vorrei che la mostraste alle persone di buon giudizio. (dalla lettera al conte Francesco Cassi, 17 ottobre 1817; vol. I, p. 63)
  • [...] mi pare d'essermi accorto che il tradurre così per esercizio vada veramente fatto innanzi al comporre, e o bisogni o giovi assai per divenire insigne scrittore; ma che per divenire insigne traduttore convenga prima aver composto ed esser bravo scrittore; e che in somma una traduzione perfetta sia opera più tosto da vecchio che da giovane. (dalla lettera a Pietro Giordani, 29 dicembre 1817; vol. I, p. 78)
  • [Riguardo Fulvio Testi] Se fosse venuto in età meno barbara, e avesse avuto agio di coltivare l'ingegno suo più che non fece, sarebbe stato senza controversia il nostro Orazio, e forse più caldo e veemente e sublime del Latino. (dalla lettera a Pietro Giordani, 19 febbraio 1819; vol. I p. 126)
  • Io non credo che i tristi vivano meglio di noi. Se la felicità vera si potesse conseguire in qualunque modo, la realtà delle cose non sarebbe così formidabile. Ma buoni e tristi nuotano affannosamente in questo mare di travagli, dove non trovi altro porto che quello de' fantasmi e delle immaginazioni. E per questo capo mi pare che la condizione de' buoni sia migliore di quella de' cattivi, perché le grandi e splendide illusioni non appartengono a questa gente; sicché ristretti alla verità e nudità delle cose, che altro si deggiono aspettare se non tedio infinito ed eterno? (dalla lettera a Pietro Giordani, 30 giugno 1820; vol. I, p. 187)
  • La facoltà della parola aiuta incredibilmente la facoltà del pensiero, e le spiana ed accorcia la strada. Anzi mi sono avveduto per prova, che anche la notizia di più lingue conferisce mirabilmente alla facilità, chiarezza e precisione del concepire. (dalla lettera a Pietro Giordani, 20 novembre 1820; vol. I, p. 210)
  • Ho veduto il romanzo del Manzoni, il quale, non ostante molti difetti, mi piace assai, ed è certamente opera di un grande ingegno [...]. (dalla lettera ad Antonio Papadopoli, 25 febbraio 1828; vol. II, p. 69)
  • Io non ho bisogno di stima, né di gloria, né di altre cose simili; ma ho bisogno d'amore. (dalla lettera a Madama Antonietta Tommasi, 5 luglio 1828; vol. II, p. 94)
  • [...] il fare è il miglior modo d'imparare [...]. (dalla lettera al fratello Pier Francesco, 16 ottobre 1828; vol. II, p. 115)
  • [...] rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice composta d'individui non felici. (dalla lettera a Fanny Targioni Tozzetti, 5 dicembre 1831[fonte 11])
  • [Sui napoletani] [...] lazzaroni pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e b. f. degnissimi di Spagnuoli e di forche. (dalla lettera al padre, 3 febbraio 1833; vol. II, p. 215)
  • L'aria di Napoli mi è di qualche utilità; ma nelle altre cose questo soggiorno non mi conviene molto... Spero che partiremo di qua in breve, il mio amico e io. (dalla lettera alla signora Adelaide Maestri, 5 aprile 1834; vol. II, p. 209[fonte 12])
  • [Su Napoli] [...] paese semibarbaro e semiaffricano, nel quale io vivo in un perfettissimo isolamento da tutti. (dalla lettera al padre, 27 novembre 1834; vol. II, p. 214)
  • Io per me, sapendo che la chiarezza è il primo debito dello scrittore, non ho mai lodata l'avarizia de' segni, e vedo che spesse volte una sola virgola ben messa, dà luce a tutt'un periodo. (dalla lettera a Pietro Giordani, 12 maggio 1820)
  • [Su Roma] Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l'unico piacere che ho provato in Roma. [...] Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de' telai e d'altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l'immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s'incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d'intrigo, d'impostura e d'inganno, come la massima parte di questa popolazione. (dalla lettera sulla visita alla tomba di Tasso, Roma 20 Febbraio 1823, in: Giacomo Leopardi, Epistolario, vol. I, a cura di Prospero Viani, Le Monnier, Firenze, 1849., pp. 276-278)

Citazioni sull'Epistolario

modifica
  • [Ai nobili signori conti Leopardi] Giacomo vostro fratello, assai chiaro e famoso per la dottrina e per gli scritti suoi, non sarà giudicato men ragguardevole e degno d'altrettanto onore e maraviglia per le sue lettere: le quali, non tanto per libera elezione (nata da stima ed affetto parziale verso di voi, signori ed amici venerati e cari, che per tanto d'ingegno e coltura in voi raccolto stimo una delle più rare e principali famiglie d'Italia), quanto per giusta ragione e gratitudine vi dedico e rimando accresciute. Ed io, che dal punto che primieramente vidi e ammirai gli scritti suoi m'invaghii fortemente di avere piena contezza degli atti, de' costumi, e della vita di lui, reco a mia spezial ventura che per mezzo vostro mi sia conceduta sì maravigliosa opportunità d'adempire questo mio ferventissimo desiderio con le sue lettere famigliari, dove tanto e sì spesso ragiona di se. (Prospero Viani)
  • In tanta materia di dolore vi è qualche cosa pur di sereno in queste lettere, nelle quali quanto calcato è più, tanto si rileva più alteramente l'uomo, maggiore della fortuna. Qualità nobilissima ed antica: in questo fiacco secolo, non paziente de' mali e non ardito a' rimedii, ammirata più che imitata. La dignità adorna l'infortunio, come della ricchezza e della potenza è ornamento la temperanza. E questa dignità non è posta solo in quella specie di virtù negativa, ch'è detta «decoro», ed è quel non chinarsi mai per nessuna cagione ad atto men che nobile e gentile; di che ci è esempio la delicata risposta del Leopardi alle profferte del Colletta, e quella lettera, nella quale domanda quasi la carità al padre suo, alteramente supplichevole. Ma vi è una dignità di altra sorte, o meglio direbbesi magnanimità, la quale è quel tener l'animo sempre alto sui casi umani, e non lasciar che altri abbia la gioia di aver potuto anche un istante turbare la tua serenità. Ed il Leopardi alla ferrea necessità che lo preme soprastà in guisa, che spesso, non che risolversi in vane querele, de' suoi mali non parla altrimenti che filosofando con tranquilla ragione, divenuto egli stesso obbietto di meditazione al suo pensiero. (Francesco De Sanctis)
  • Io nei primi anni della conoscenza di Leopardi ebbi molte lettere di lui, tutte stupendissime; le quali (secondo il mio immutabil costume per tutte) distrussi. Erano le più belle lettere possibili. Non saprei dove cercarne. Ho per fermo che in Parma nessuno ne abbia avuto fuorché la Tommasini, e sua figlia la Maestri. Ma ora quella povera famiglia è nella massima desolazione, perché va morendo tra mille patimenti l'unica figlia. Oh caro Viani, è pur pieno di guai questo mondo ! Ella si conservi la sanità, e l'animo forte; e mi abbia sempre per suo vero amico. (Pietro Giordani)

Operette morali

modifica
  Per approfondire, vedi: Operette morali.

Pensieri

modifica

Io ho lungamente ricusato di creder vere le cose che dirò qui sotto, perché, oltre che la natura mia era troppo rimota da esse, e che l'animo tende sempre a giudicare gli altri da se medesimo, la mia inclinazione non è stata mai d'odiare gli uomini, ma di amarli. In ultimo l'esperienza quasi violentemente me le ha persuase: e sono certo che quei lettori che si troveranno aver praticato cogli uomini molto e in diversi modi, confesseranno che quello ch'io sono per dire è vero; tutti gli altri lo terranno per esagerato, finché l'esperienza, se mai avranno occasione di veramente fare esperienza della società umana, non lo ponga loro dinanzi agli occhi.

Citazioni

modifica
  • Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini dabbene, di vili contro i generosi. (I)
  • Rari sono i birbanti poveri [...]. (I)
  • Sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina. (I)
  • La morte non è male: perché libera l'uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l'uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza. (VI)
  • Bella ed amabile illusione è quella per la quale i dì anniversari di un avvenimento, che per verità non ha a fare con essi più che con qualunque altro dì dell'anno, paiono avere con quello un'attinenza particolare, e che quasi un'ombra del passato risorga e ritorni sempre in quei giorni, e ci sia davanti: onde è medicato in parte il tristo pensiero dell'annullamento di ciò che fu, e sollevato il dolore di molte perdite, parendo che quelle ricorrenze facciano che ciò che è passato, e che più non torna, non sia spento né perduto del tutto.[fonte 13] (XIII)
  • Non sarebbe piccola infelicità degli educatori, e soprattutto dei parenti, se pensassero, quello che è verissimo, che i loro figliuoli, qualunque indole abbiano sortita, e qualunque fatica, diligenza e spesa si ponga in educarli, coll'uso poi del mondo, quasi indubitabilmente, se la morte non li previene, diventeranno malvagi. Forse questa risposta sarebbe più valida e più ragionevole di quella di Talete che, dimandato da Solone perché non si ammogliasse, rispose mostrando le inquietudini dei genitori per gl'infortunii e i pericoli de' figliuoli. Sarebbe, dico, più valido e più ragionevole lo scusarsi dicendo di non volere aumentare il numero dei malvagi. (XIV)
  • Come le prigioni e le galee sono piene di genti, a dir loro, innocentissime, così gli uffizi pubblici e le dignità d'ogni sorte non sono tenute se non da persone chiamate e costrette a ciò loro mal grado. (XVII)
  • Se la miglior compagnia è quella dalla quale noi partiamo più soddisfatti di noi medesimi, segue ch'ella è appresso a poco quella che noi lasciamo più annoiata.[fonte 14] (XXI)
  • Nessun maggior segno d'essere poco filosofo e poco savio, che volere savia e filosofica tutta la vita.[fonte 15] (XXVII)
  • Il genere umano e, dal solo individuo in fuori, qualunque minima porzione di esso, si divide in due parti: gli uni usano prepotenza, e gli altri la soffrono. (XXVIII)
  • Nessuna professione è sì sterile come quella delle lettere.[fonte 16] (XXIX)
  • L'impostura vale e fa effetto anche senza il vero; ma il vero senza lei non può nulla. (XXIX)
  • Molti vogliono e condursi teco vilmente, e che tu ad un tempo, sotto pena del loro odio, da un lato sii tanto accorto, che tu non dia impedimento alla loro viltà, dall'altro non li conoschi per vili. (XXXVI)
  • Nessuna qualità umana è più intollerabile nella vita ordinaria, né in fatti tollerata meno, che l'intolleranza. (XXXVII)
  • Il mondo [...] non crede mai che chi non cede abbia il torto. (XLV)
  • L'uomo è condannato o a consumare la gioventù senza proposito, la quale è il solo tempo di far frutto per l'età che viene, e di provvedere al proprio stato; o a spenderla in procacciare godimenti a quella parte della sua vita, nella quale egli non sarà più atto a godere. (XLV)
  • Il Guicciardini è forse il solo storico tra i moderni, che abbia e conosciuti molto gli uomini, e filosofato circa gli avvenimenti attenendosi alla cognizione della natura umana, e non piuttosto a una certa scienza politica, separata dalla scienza dell'uomo, e per lo più chimerica, della quale si sono serviti comunemente quegli storici, massime oltramontani ed oltramarini, che hanno voluto pur discorrere intorno ai fatti, non contentandosi, come la maggior parte, di narrarli per ordine, senza pensare più avanti. (LI)
  • La schiettezza allora può giovare, quando è usata ad arte, o quando, per la sua rarità, non l'è data fede. (LVI)
  • Gli uomini si vergognano non delle ingiurie che fanno, ma di quelle che ricevono. (LVII)
  • I timidi non hanno meno amor proprio che gli arroganti; anzi più, o vogliamo dire più sensitivo; e perciò temono: e si guardano di non pungere gli altri, non per istima che né facciano maggiore che gl'insolenti e gli arditi, ma per evitare d'esser punti essi, atteso l'estremo dolore che ricevono da ogni puntura. (LVIII)
  • Quasi tutti gli uomini grandi sono modesti: perché si paragonano continuamente, non cogli altri, ma con quell'idea del perfetto che hanno dinanzi allo spirito, infinitamente più chiara e maggiore di quella che ha il volgo; e considerano quanto sieno lontani dal conseguirla.[fonte 17] (LXIV)
  • La noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa.[fonte 18] (LXVII)
  • La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall'esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali. (LXVIII)
  • La stima non è prezzo di ossequi: oltre che essa, non diversa in ciò dall'amicizia, è come un fiore, che pesto una volta gravemente, o appassito, mai più non ritorna.[fonte 19] (LXXII)
  • Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno nella sua coscienza trova se munito da ogni parte. Chi ha coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire.[fonte 20] (LXXVIII)
  • Rivedendo in capo di qualche anno una persona ch'io avessi conosciuta giovane, sempre alla prima giunta mi è paruto vedere uno che avesse sofferto qualche grande sventura. (LXXX)
  • Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l'opinione sua intorno a sé stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita. (LXXXII)
  • Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non trapassarli.[fonte 21] (LXXXVI)
  • Chi comunica poco cogli uomini, rade volte è misantropo. Veri misantropi non si trovano nella solitudine, ma nel mondo: perché l'uso pratico della vita, e non già la filosofia, è quello che fa odiare gli uomini. E se uno che sia tale, si ritira dalla società, perde nel ritiro la misantropia. (LXXXIX)
 
Le persone non sono ridicole se non quando vogliono parere o essere ciò che non sono.
  • L'uomo onesto, coll'andar degli anni, facilmente diviene insensibile alla lode e all'onore, ma non mai, credo, al biasimo né al disprezzo. Anzi la lode e la stima di molte persone egregie non compenseranno il dolore che gli verrà da un motto o da un segno di noncuranza di qualche uomo da nulla. Forse ai ribaldi avviene al contrario; che, per essere usati al biasimo, e non usati alla lode vera, a quello saranno insensibili, a questa no, se mai per caso ne tocca loro qualche saggio. (XCVI)
  • Le persone non sono ridicole se non quando vogliono parere o essere ciò che non sono. (XCIX)
  • L'astuzia, la quale appartiene all'ingegno, è usata moltissime volte per supplire la scarsità di esso ingegno, e per vincere maggior copia del medesimo in altri. (CV)
  • [...] nella vita comune è necessario dissimulare con più diligenza la nobiltà dell'operare, che la viltà: perché la viltà è di tutti, e però almeno è perdonata; la nobiltà è contro l'usanza, e pare che indichi presunzione, o che da sé richiegga lode; la quale il pubblico, e massime i conoscenti, non amano di dare con sincerità. (CVI)
  • L'uomo è quasi sempre tanto malvagio quanto gli bisogna. Se si conduce dirittamente, si può giudicare che la malvagità non gli è necessaria. Ho visto persone di costumi dolcissimi, innocentissimi, commettere azioni delle più atroci, per fuggire qualche danno grave, non evitabile in altra guisa. (CIX)

Storia dell'astronomia

modifica
  • La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l'Astronomia. L'uomo s'innalza per mezzo di essa come al di sopra di sé medesimo, e giunge a capire la causa dei fenomeni più straordinari. (introduzione)
  • La conoscenza degli effetti e la ignoranza delle cause produsse l'astrologia. (cap. I)
  • Già sospira la mia anima di separarsi da questa creta, che la circonda: libera dalla salma corporea, s'alza di sfera in sfera, e vola in seno agli immensi spazi sovrapposti alla mia abitazione. Questa già non è più che un punto agli occhi miei, essa già dileguossi ed io mi sento con la maggior celerità trasportato in altre regioni. L'astro della notte è sotto i miei piedi, il velo azzurrino dei cieli si squarcia, ed i recessi più lontani dello spazio mi si aprono d'innanzi. Di tratto in tratto mi veggo vicini quei corpi, per i quali sudano gli uomini muniti di quelle armi, che ai loro occhi appresta la scienza. Lascio sotto di me il vostro anello di Saturno, e seguo coraggioso il volo ardito di una cometa. Con essa mi reco in mezzo a que' fulgidissimi soli, che non han d'uopo di altrui luce per splendere e per illuminare spazi infiniti. Ma la mia carriera non è appena cominciata: questo che io veggo non è che il portico del palagio dell'Onnipotente. Posso dir tuttora di serpeggiare sul suolo. Quanto più m'inoltro verso l'Eterno, tanto più egli sembra allontanarsi da me. (cap. II)
  • L'uomo superiore ai pregiudizi, che rende giustizia al merito ovunque questo si trovi, non fu giammai biasimevole, anzi fu sempre degno di lode. (cap. IV)

Zibaldone

modifica
 
Ritratto di Giacomo Leopardi

Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante.

Era la luna nel cortile, un lato
Tutto ne illuminava, e discendea
Sopra il contiguo lato obliquo un raggio...
Nella (dalla) maestra via s'udiva il carro
Del passegger, che stritolando i sassi,
Mandava un suon, cui precedea da lungi
Il tintinnìo de' mobili sonagli.

Citazioni

modifica
  • Ne' guai non ci vuol pianto ma consiglio. (5; 1898, vol. I, p. 81)
  • In molte opere di mano dove c'è qualche pericolo o di fallare o di rompere ec., una delle cose più necessarie perché riescano bene è non pensare al pericolo e portarsi con franchezza. [...] Ma noi timidissimi, non solamente sapendo che si può errare, ma avendo sempre avanti gli occhi l'esempio di chi ha errato e di chi erra, e però pensando sempre al pericolo (e con ragione perché vediamo il gusto corrotto del secolo che facilissimamente ci trasporterebbe in sommi errori, osserviamo le cadute di molti che per certa libertà di pensare e di comporre partoriscono mostri, come sono al presente, per esempio, i romantici) non ci arrischiamo di scostarci, non dirò dall'esempio degli antichi e dei classici, che molti pur sapranno abbandonare, ma da quelle regole (ottime e classiche ma sempre regole) che ci siamo formate in mente, e diamo in voli bassi, né mai osiamo di alzarci con quella negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme opere dell'arte, onde pel timore di non fare cose pessime, non ci attentiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri, non dico già mediocri di quella mediocrità che riprende Orazio, e che in poesia è insopportabile, ma mediocri nel genere delle buone cioè lavorate, studiate, pulitissime, armonia espressiva, bel verso, bella lingua, Classici ottimamente imitati, belle imagini, belle similitudini, somma proprietà di parole, (la quale soprattutto tradisce l'arte) insomma tutto, ma che non son quelle, non sono quelle cose secolari e mondiali, insomma non c'è più Omero, Dante, l'Ariosto, insomma il Parini, il Monti sono bellissimi ma non hanno nessun difetto. (910; 1898, vol. I, pp. 86-87)
  • L'arte di Ovidio di metter le cose sotto gli occhi, non si chiama efficacia, ma pertinacia. (12; 1898, vol. I, p. 89)
  • Senza dubbio non si può dir niente di Dio che non sia infinitamente al di sotto del vero, e però la Bibbia (e la Bibbia molto meno che qualunque altro) non dice mai cosa che appetto al vero non sia strapiccolissima [...]. (13; 1898, vol. I, p. 90)
  • La ragione è nemica d'ogni grandezza; la ragione è nemica della natura; la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande, quanto più sarà dominato dalla ragione; ché pochi possono esser grandi; e nelle arti e nella poesia forse nessuno, se non sono dominati dalle illusioni. (14; 1898, vol. I, p. 93)
  • [...] e non si avvedono [i romantici] che appunto questo grand'ideale dei tempi nostri, questo conoscere cosí intimamente il cuor nostro, questo analizzarne, prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti affetti, quest'arte insomma psicologica, distrugge l'illusione senza cui non ci sarà poesia in sempiterno, distrugge la grandezza dell'animo e delle azioni [...]: e non si avvedono che s'è perduto il linguaggio della natura, e che questo sentimentale non è altro che l'invecchiamento dell'animo nostro, e non ci permette più di parlare se non con arte [...]. (17; 1898, vol. I, pp. 97-98)
  • [...] una poesia ragionevole, è lo stesso che dire una bestia ragionevole. (18; 1898, vol. I, p. 100)
  • [Gabriello Chiabrera] Fu ardito caldo veemente urtantesi nelle cose, ardito nelle voci [...] nelle locuzioni nelle costruzioni, nel trarre dal greco e latino le forme così dei sentimenti [...] come delle parole, [...]. (24; 1898, vol. I, p. 111)
  • La tartaruga lunghissima nelle sue operazioni ha lunghissima vita. Così tutto è proporzionato nella natura; e la pigrizia della tartaruga, di cui si potrebbe accusar la natura, non è veramente pigrizia assoluta, cioè considerata nella tartaruga, ma rispettiva. Da ciò possiamo cavare molte considerazioni. (32; 1898, vol. I, p. 124)
  • È osservabile che in Celso nel quale è singolarmente notata e lodata la semplicità e facilità dello stile, per le quali si sarà discostato meno degli altri dal latino volgare, sono frequentissime e moltissime frasi, costruzioni, usi di parole, locuzioni ec. ed anche parole assolutamente, o prette italiane o che si accostano alle italiane io dico di quelle che comunemente non s'hanno per derivate dal latino né per comuni alle due lingue ma proprie della nostra, e che trovandole non presso Celso ma presso qualche scrittore latino moderno, le stimeressimo poco meno che barbarismi, anche presentemente, cioè non ostante che in effetto si trovino appresso Celso eccetto se non ci ricordassimo espressamente o ci fosse citata l'autorità di lui. (32; 1898, vol. I, pp. 125-126)
  • Quanto più del tempo si tiene a conto, tanto più si dispera d'averne che basti, quanto più se ne gitta, tanto par che n'avanzi. (43; 1898, vol. I, p. 143)
  • Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni. (51; 1898, vol. I, p. 157)
  • La varietà è tanto nemica della noia che anche la stessa varietà della noia è un rimedio o un alleviamento di essa, come vediamo tutto giorno nelle persone di mondo [...]. (51; 1898, vol. I, p. 157)
  • Intendo per innocente non uno incapace di peccare, ma di peccare senza rimorso. (51; 1898, vol. I, p. 158)
  • Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia. (58; 1898, vol. I, p. 167)
  • Anche il dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle cose è più tollerabile assai che la stessa noia. (72; 1898, vol. I, p. 184)
  • Il sentimento della vendetta è così grato, che spesso si desidera d'essere ingiuriato per potersi vendicare, e non dico già solamente da un nemico abituale, ma da un indifferente, o anche, massime in certi momenti d'umor nero, da un amico. (72; 1898, vol. I, p. 184)
  • Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un'ora più quieta conoscerò, la vanità e l'irragionevolezza e l'immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s'annullerà, lasciandomi in un vòto universale, e in un'indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi. (72; 1898, vol. I, p. 185)
  • Io era oltremodo annoiato della vita, sull'orlo della vasca del mio giardino, e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s'io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzandomi di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe più pregevole. La tradizione intorno al salto di Leucade poteva avere per fondamento un'osservazione simile a questa. (82; 1898, vol. I, p. 219)
  • Una prova in mille di quanto influiscano i sistemi puramente fisici sugl'intellettuali e metafisici è quello di Copernico, che al pensatore rinnuova interamente l'idea della natura e dell'uomo concepita e naturale per l'antico sistema detto tolemaico; rivela una pluralità di mondi, mostra l'uomo un essere non unico, come non è unica la collocazione il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l'infinità delle creature, che secondo tutte le leggi d'analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analoghi al nostro, e quelli anche che saranno, benché non ci appariscano, intorno agli altri soli, cioè le stelle, abbassa l'idea dell'uomo e la sublima; scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della essenza delle cose, dell'esser nostro, dell'onnipotenza del creatore, dei fini del creato ec. ec. (84; 1898, vol. I, p. 194)
  • Quando io era fanciullo, diceva talvolta a qualcuno de' miei fratellini, tu mi farai da cavallo. E legatolo a una cordicella, lo venia conducendo come per la briglia e toccandolo con una frusta. E quelli mi lasciavano fare con diletto, e non per questo erano altro che miei fratelli. Io mi ricordo spesso di questo fatto, quando io vedo un uomo (sovente di nessun pregio) servito riverentemente da questo e da quello in cento minuzie, ch'egli potrebbe farsi da se, o fare ugualmente a quelli che lo servono, e forse n'hanno più bisogno di lui, che alle volte sarà più sano e gagliardo di quanti ha dintorno. E dico fra me, né i miei fratelli erano cavalli, ma uomini quanto me, e questi servitori sono uomini quanto il padrone e simili a lui in ogni cosa; e tuttavia quelli si lasciavano guidare benché fossero tanto cavalli quant'era io, e questi si lasciano comandare; e tra questi e quelli non vedo nessun divario. (106, 26 marzo 1820; 1898, vol. I, p. 217)
  • Mi diedi tutto alla gioia barbara e fremebonda della disperazione. (107, 15 aprile 1820; 1898, vol. I, p. 218)
  • La pazienza è la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna apparenza d'eroico. (112, 31 maggio 1820; 1898, vol. I, p. 223)
  • Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni o illusioni o da qualunque sventura della vita non è paragonabile all'affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e dell'impossibilità di essere felice in questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente nell'anima. (140, 27 giugno 1820; 1898, vol. I, p. 247)
  • Il silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell'amore (anche nei momenti dolci) dell'ira, della meraviglia, del timore ec. (142, 27 giugno 1820; 1898, vol. I, p. 247)
  • I migliori momenti dell'amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia dove tu piangi e non sai di che, e quasi ti rassegni riposatamente a una sventura e non sai quale. (142, 27 giugno 1820; 1898, vol. I, p. 247)
  • L'immaginazione [...] è il primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell'uomo, tanto più l'uomo sarà felice. (168; 1898, vol. I, p. 275)
  • [...] il raziocinio è un'operazione matematica dell'intelletto e materializza e geometrizza anche le nozioni più astratte. (181; 1898, vol. I, p. 286)
  • L'arte non può mai uguagliare la ricchezza della natura. (189; 1898, vol. I, p. 294)
  • Ripetono tutto giorno i francesi che Bossuet ha soggiogato la sua lingua al suo genio. Io dico che il suo genio è stato soggiogato dalla lingua costumi gusti del suo paese. (217, 20 agosto 1820; 1898, vol. I, p. 318)
  • L'abuso e la disubbidienza alla legge, non può essere impedita da nessuna legge. (229, 31 agosto 1820; 1898, vol. I, p. 327)
  • L'irresoluzione è peggio della disperazione. (245, 14 settembre 1820; 1898, vol. I, p. 339)
  • Il Say nei Cenni sugli uomini e la società, chiama l'ode, la sonata della letteratura. È un pazzo se stima che l'ode non possa esser altro, ma ha gran ragione e intende parlare delle odi che esistono, massime delle francesi. (245; 1898, vol. I, p. 339)
  • Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l'inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia a un'anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, raccendono l'entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. (259-260, 27 giugno 1820; 1898, vol. I, p. 349)
  • Chi non ha uno scopo non prova quasi mai diletto in nessuna operazione. (268, 10 ottobre 1820; 1898, vol. I, p. 356)
  • [...] i beni si disprezzano quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si corre pericolo o si è in procinto di perderli. (296, 23 ottobre 1820; 1898, vol. I, p. 373)
  • [...] la felicità o infelicità non si misura dall'esterno ma dall'interno. (296, 23 ottobre 1820; 1898, vol. I, p. 374)
  • La corruttela de' costumi è mortale alle repubbliche e utile alle tirannie e monarchie assolute. Questo solo basta a giudicare della natura e differenza di queste due sorte di governi. (302, 3 novembre 1820; 1898, vol. I, p. 377)
  • L'amore dell'ordine o l'idea della necessità dell'ordine, che è quanto dire dell'armonia e convenienza, è innata, assoluta, universale, giacché è il fondamento del raziocinio e il principio della cognizione o del giudizio falso o vero. (376; 1898, vol. I, pp. 428-429)
  • Dicono che la felicità dell'uomo non può consistere fuorché nella verità. Così parrebbe, perché qual felicità in una cosa che sia falsa? E come, se il mondo è diretto alla felicità, il vero non deve render felice? Eppure io dico che la felicità consiste nell'ignoranza del vero. (326; 1898, vol. I, p. 393)
  • [...] ogni felicità si trova falsa e vana, quando l'oggetto suo giunge ad essere conosciuto nella sua realtà e verità. (352; 1898, vol. I, p. 410)
  • Ho detto più volte che la letteratura francese è precisamente letteratura moderna, ed è quanto dire che non è letteratura. Perché considerando bene vedremo che i tempi moderni hanno filosofia, dottrina, scienze d'ogni sorta, ma non hanno propriamente letteratura, e se l'hanno, non è moderna, ma di carattere antico, ed è quasi un innesto dell'antico sul moderno. L'immaginazione, ch'è la base della letteratura strettamente considerata, sì poetica come prosaica, non è propria, anzi impropria de' tempi moderni; e se anche oggi si trova in qualche individuo, non è moderna, perché non solamente non deriva dalla natura de' tempi, ma questa l'è sommamente contraria, anzi nemica e micidiale. E vedete infatti che la letteratura francese, nata e formata in tempi moderni, è la meno immaginosa, non solo delle antiche, ma anche di tutte le moderne letterature. E per questo appunto è letteratura pienamente moderna, cioè falsissima, perché il predominio odierno della ragione, quanto giova alle scienze e a tutte le cognizioni del vero e dell'utile (così detto), tanto nuoce alla letteratura e a tutte le arti del bello e del grande, il cui fondamento, la cui sorgente e nutrice è la sola natura, bisognosa bensì di un mezzano aiuto della ragione, ma sommamente schiva del suo predominio, che l'uccide, come pur troppo vediamo nei nostri costumi e in tutta la nostra vita d'oggidì. (1174-1175; 1898, vol. I, p. 461)
  • Tutti i moderni ideologi hanno stabilito che le idee o credenze le più primitive, le più necessarie all'azione la più vitale, e quindi tutte le idee o credenze moventi del bambino appena nato, (e così d'ogni altro animale), tutte le idee o credenze determinanti o non determinanti, cioè relative o no all'azione, non vengono altro che dall'esperienza e quindi non sono se non tante conseguenze tirate col mezzo di un raziocinio e di un'operazione sillogistica, da una maggiore ec. (e qui osservate la necessità del raziocinio ne' bruti). (443; 1898, vol. I, pp. 472-473)
  • Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l'amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto. (458, 24 dicembre 1820; 1898, vol. II, p. 2)
  • [A proposito di Tacito] Ma neppur egli troverete che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in persona propria. (458, 28 dicembre 1820; 1898, vol. II, p. 5)
  • Non punir mai l'ingiuria che non hai meritata, né lasciare impunita quella che hai meritata. Perdona al tuo calunniatore, punisci il tuo detrattore. Non far caso di chi ti schernisce a torto, ma piglia vendetta di chi ti motteggia a ragione. (476-477, 7 gennaio 1821; 1898, vol. II, p. 14)
  • Tutto è amor proprio nell'uomo e in qualunque vivente. Amabile non pare e non è, se non quegli che lusinga, giova ec. l'amor proprio degli altri. (508, 15 gennaio 1821; 1898, vol. II, p. 32)
  • I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto. (527, 19 gennaio 1821; 1898, vol. II, p. 43)
  • [...] la felicità è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sí come è desiderio assoluto di felicità e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perché la felicità assoluta è indefinita e non ha limiti. (648; 1898, vol. II, p. 112)
  • L'egoismo è sempre stata la peste della società, e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata la condizione della società. (670671; 1898, vol. II, p. 123)
  • Siccome l'amor patrio o nazionale non è altro che una illusione, ma facilmente derivante dalla natura, posta la società, com'é naturale l'amor proprio nell'individuo, e posta la famiglia, l'amor di famiglia, che si vede anche ne' bruti; cosí esso non si mantiene e non produce buon frutto senza le illusioni e i pregiudizi che naturalmente ne derivano o che anche ne sono il fondamento. (923; 1898, vol. II, p. 269)
  • [...] il pensatore non è cosí. Egli cerca naturalmente e necessariamente un filo nella considerazione delle cose. È impossibile ch'egli si contenti delle nozioni e delle verità del tutto isolate. E se se ne contentasse, la sua filosofia sarebbe trivialissima e meschinissima e non otterrebbe nessun risultato. Lo scopo della filosofia (in tutta l'estensione di questa parola) è il trovar le ragioni delle verità. Queste ragioni non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità e col mezzo del generalizzare. Non è ella cosa notissima che la facoltà di generalizzare costituisce il pensatore? (946-947, 16 aprile 1821; 1898, vol. II, p. 288)
  • Per qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch'è un trattato di medicina? Forse perché ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi, prima di tutto, perché ne manca onninamente e perché ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere; poi perché è chiaro, preciso, perché ha una lingua ed uno stile puro. (949, 16 aprile 1821; 1898, vol. II, p. 290)
  • Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare; e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi, la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. Che altro è questo se non ritornare l'arte dello scrivere all'infanzia? (976; 1898, vol. II, p. 310)
  • La convenienza al suo fine, e quindi l'utilità ec., è quello in cui consiste la bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella. (1165, 13 giugno 1821; 1898, vol. II, p. 454)
  • E notate che l'uso della moneta quanto è necessario a quella che oggi si chiama perfezione dello stato sociale, tanto nuoce a quella perfezione ch'io vo predicando; giacché il detto uso è l'uno de' principalissimi ostacoli alla conservazione dell'uguaglianza fra gli uomini, e quindi degli stati liberi, alla preponderanza del merito vero e della virtù ec. ec. e l'una delle principalissime cagioni che introducono, e appoco appoco costringono la società all'oppressione, al dispotismo, alla servitù, alla gravitazione delle une classi sulle altre, insomma estinguono la vita morale ed intima delle nazioni, e le nazioni medesime in quanto erano nazioni. (1174, 16 giugno 1821; 1898, vol. II, p. 460)
  • La trattabilità e facilità della lingua francese, ond'ella è così agevole a scriver bene e spiegarsi bene, sì per lo straniero che l'adopra o l'ascolta, sì pel nazionale, non deriva dall'esser ella uno strumento pieghevole e souple (qualità negatale espressamente dal Thomas) ec., ma dall'essere un piccolo strumento, e quindi manuale, εὐμεταχείριστος, maneggiabile, facile a rivoltarsi per tutti i versi e ad adoprare in ogni cosa ec. (1232, 27 giugno 1821; 1898, vol. III, pp. 21-22)
  • Chi vuol persuadersi dell'immensa moltiplicità di stili e quasi lingue diverse rinchiuse nella lingua italiana, consideri le opere di Daniello Bartoli [...]. (1313, 13 luglio 1821; 1898, vol. III, p. 82)
  • Dividersi perpetuamente i letterati e i poeti, da' filosofi. L'odierna filosofia che riduce la metafisica, la morale ec. a forma e condizione quasi matematica, non è più compatibile con la letteratura e la poesia, com'era compatibile quella de' tempi ne' quali fu formata la lingua nostra, la latina, la greca. [...] Ma la filosofia di Locke, di Leibnizio ec. non potrà mai stare colla letteratura né colla vera poesia. La filosofia di Socrate partecipava assai della natura, ma questa nulla ne partecipa, ed è tutta ragione. Perciò né essa né la sua lingua è compatibile colla letteratura, a differenza della filosofia di Socrate, e della di lei lingua. La qual filosofia è tale che tutti gli uomini un poco savi ne hanno sempre partecipato più o meno in tutti i tempi e nazioni, anche avanti Socrate. È una filosofia poco lontana da quello che la natura stessa insegna all'uomo sociale. Si dividano dunque le lingue, e la nostra che tante ne contiene, e così diverse anche dentro uno stesso genere, potrà ben contenere allo stesso tempo una lingua bella, e una lingua filosofica. Ed allora avrà una filosofia, e seguirà ad avere quella poesia, e quella letteratura nella quale ha sempre superato tutte le moderne. (1359-1360, 20 luglio 1821; 1898, vol. III, p. 112)
  • Il languore del corpo alle volte è tale, che senza dargli affanno e fastidio, affievolando le facoltà dell'animo, affievola ogni cura e ogni desiderio. (1581, 28 agosto 1821; 1898, vol. III, p. 246)
  • Le pluralità de' mondi, quasi fisicamente dimostrata, come si può accordare col cristianesimo fuori del mio sistema, il quale dimostra che le creature possono esser d'infinite specie, e che Dio esistendo verso noi, come la religione insegna, esiste ancora in tutti i possibili modi, e può avere avuto ed avere con diversissime creature diversissimi e contrari rapporti, e non averne alcuno? Quante verità fisiche, metafisiche ec. ripugnano alla religione, fuori del mio sistema che nega ogni verità e falsità assoluta, ammettendo le relative, e in queste la religione? (1642-43; 1898, vol. III, pp. 283-84)
  • [...] la memoria non è altro che assuefazione. (1676, 11 settembre 1821; 1898, vol. III, p. 303)
  • Nessuna opinione vera o falsa, ma contraria all'opinione dominante e generale, si è mai stabilita nel mondo istantaneamente, e in forza di una dimostrazione lucida e palpabile, ma a forza di ripetizioni e quindi di assuefazione. (1720, 17 settembre 1821; 1898, vol. III, p. 330)
  • Non si vive al mondo che di prepotenza. (1721, 17 settembre 1821; 1898, vol. III, p. 330)
  • Chi più si ama meno può amare. (1723, 17 settembre 1821; 1898, vol. III, p. 333)
  • L'insegnare non è quasi altro che assuefare. (1727, 18 settembre 1821; 1898, vol. III, p. 334)
  • Gli antichi da proposizioni e premesse che conoscevano né più né meno quanto noi deducevano conseguenze contrarissime a quelle che noi ne tiriamo. Ciò mostra ch'essi non conoscevano i rapporti delle proposizioni, altrimenti non potressimo negare le loro conseguenze. Ma chi ci ha detto che noi li conosciamo meglio? come lo sappiamo noi se non a forza di sillogismi? Giacché qualunque affermazione o negazione ha bisogno di sillogismo, e ciascun sillogismo contiene tanti sillogismi quanti sono i rapporti delle sue proposizioni fra loro. Cioè bisogna che l'uomo si persuada sempre con un sillogismo, benché tacito, che, se la tal cosa è, anche la tal altra dev'essere. Senza questi sillogismi intermedi nessun sillogismo vale, e siccome questi ordinariamente si omettono o non son giusti, però infiniti sillogismi son falsi, perché non è vero il rapporto che noi, o non sillogizzando punto o falsamente sillogizzando, supponiamo fra la maggiore e la minore, fra queste e la conseguenza. ((17711772, 22 settembre 1821; 1898, vol. III, p. 359)
  • La noia è la più sterile delle passioni umane. Com'ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacché non solo è sterile per se, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina. (1815, 30 settembre 1821; 1898, vol. III, p. 383)
  • La rapidità e la concisione dello stile piace, perché presenta all'anima una folla d'idee simultanee o così rapidamente succedentisi, che paiono simultanee e fanno ondeggiar l'anima in una tale abbondanza di pensieri o d'immagini e sensazioni spirituali, ch'ella o non è capace di abbracciarle tutte e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio e priva di sensazioni. (2041, 3 novembre 1821; 1898, vol. IV, p. 22)
  • La lingua latina così esatta, così regolata e definita, ha nondimeno moltissime frasi ec. che per la stessa natura loro, e del linguaggio latino, sono di significato così vago, che a determinarlo, e renderlo preciso non basta qualsivoglia scienza di latino, e non avrebbe bastato l'esser nato latino, perocch'elle son vaghe per se medesime, e quella tal frase e la vaghezza della significazione sono per essenza loro inseparabili, né quella può sussistere senza questa. Come Georg., I, 44: et Zephyro putris se glaeba resolvit. Quest'è una frase regolarissima, e nondimeno regolarmente e gramaticalmente indefinita di significazione, perocché nessuno potrà dire se quel Zephyro significhi al zefiro, col zefiro ec. Così quell'altra: Sunt lacrimae rerum ec. della quale altrove ho parlato. E cento mila di questa e simili nature, regolarissime, latinissime, conformissime alla grammatica, e alla costruzione latina, prive o affatto o quasi affatto d'ogni figura di dizione, e tuttavolta vaghissime e indefinibili di significato, non solo a noi, ma agli stessi latini. (2288-2289, 26 dicembre 1821; 1898, vol. IV, p. 150)
  • Il p. Dan. Bartoli è il Dante della prosa italiana. Il suo stile in ciò che spetta alla lingua è tutto a risalti e rilievi. (2396, 22 marzo 1822; 1898, vol. IV, p. 215)
  • Perché del resto nessuna lingua viva ha, né può avere un vocabolario che la contenga tutta, massime quanto ai modi, che son sempre (finch'ella vive) all'arbitrio dello scrittore. E ciò tanto più nell'italiana (per indole sua). La quale molto meno può esser compresa in un vocabolario, quanto ch'ella è più vasta di tutte le viventi [...]. (2398, 29 marzo 1822; 1898, vol. IV, pp. 216-217)
  • E però Plutarco [...] non si può recar per modello né di lingua né di stile, essendo però stato forse più filosofo di tutti i filosofi greci, molti de' quali sono esempi di perfettissimo scrivere. Ma non erano così sottili come Plutarco [...]. (2410, 1 maggio 1822; 1898, vol. IV, p. 224)
  • [...] quasi tutte le principali scoperte che servono alla vita civile sono state opere del caso. (2602, 10 agosto 1822; 1898, vol. IV, p. 329)
  • Non basta che lo scrittore sia padrone del proprio stile. Bisogna che lo stile sia padrone delle cose [...]. (2611, 27 agosto 1822; 1898, vol. IV, p. 334)
  • Gl'italiani non hanno costumi: essi hanno delle usanze. Così tutti i popoli civili che non sono nazioni. (2923, 9 luglio 1823; 1898, vol. V, p. 80)
  • La Lusiade avrà certo interessato ed interesserà forse anche oggidì i lettori portoghesi, né si può bastantemente lodare lo sfortunato Camoens per l'avere scelto un soggetto così strettamente nazionale, e di più per l'aver saputo adattare e far materia di poema epico un argomento allora modernissimo, qualità che per l'una parte produce estreme difficoltà le quali a molti sono sembrate in un poema epico insuperabili, e per l'altra sommamente contribuirebbe a produrre o singolarmente accrescere l'interesse d'un'epopea, come ancora di un dramma e di qualsivoglia poesia. Ma per li lettori dell'altre nazioni non so quanto nella Lusiade possa essere l'interesse, né se ne' medesimi portoghesi, mancata la recente memoria di quelle imprese, e raffreddato, come per tutta l'Europa, l'amor nazionale e gli altri sentimenti magnanimi, la Lusiade produca per ancora un interesse abbastanza vivo, continuo e durabile. (3146-3147, 5-11 agosto 1823; 1898, vol. V, pp. 209-210)
  • Una lingua strettamente universale, qualunque ella mai si fosse, dovrebbe certamente essere di necessità e per sua natura, la più schiava, povera, timida, monotona, uniforme, arida e brutta lingua, la più incapace di qualsivoglia genere di bellezza, la più impropria all'immaginazione, e la meno da lei dipendente, anzi la più da lei per ogni verso disgiunta, la più esangue ed inanimata e morta, che mai si possa concepire; uno scheletro un'ombra di lingua piuttosto che lingua veramente [...]. (3253, 23 agosto 1823; 1898, vol. V, p. 275)
  • Quello che non può in niun modo la riflessione, può e fa l'irriflesione. (3520, 25 settembre 1823; 1898, vol. VI, p. 2)
  • Chiunque nel pericolo in cui non v'è nulla a fare, comparisce diverso da quel ch'ei suole, qualunque ei soglia essere, e qual ch'ei divenga, e quanta che sia questa diversità, non è coraggioso, o in quel caso non ha vero coraggio. (3531, 26-7 settembre 1823; 1898, vol. VI, p. 9)
  • [...] il piacere è sempre o passato o futuro, non mai presente [...].[3] (3550, 29 settembre 1823, Festa di San Michele Arcangelo; 1898, vol. VI, p. 21)
  • [Su Daniello Bartoli] [...] uomo che fra tutti del suo tempo, e fors'anche di tutti i tempi, fu quello che e per teoria e scienza e per pratica, meglio e più profondamente e pienamente conobbe la nostra lingua [...]. (3630; 1898, vol. VI, p. 73)
  • Il fuoco è una di quelle materie, di quegli agenti terribili, come l'elettricità, che la natura sembra avere studiosamente seppellito e appartato, e rimosso dalla vista e da' sensi e dalla vita degli animali, e dalla superficie del globo, dove essa vita e la vegetazione e la vita totale della natura ha principalmente luogo, per non manifestarlo o lasciarlo manifestare che nelle convulsioni degli elementi e ne' fenomeni accidentali e particolari, com'è quello de' vulcani, che sono fuor dell'ordine generale e della regola ordinaria della natura. (3645, 11 ottobre 1823; 1898, vol. VI)
  • La noia è il desiderio della felicità, lasciato, per così dir, puro. (3715, 17 ottobre 1823; 1898, vol. VI, p. 127)
  • La novità tolta prudentemente dal latino, benché novità assolutissima in fatto, è per le nostre lingue piuttosto restituzione dell'antichità che novità, piuttosto peregrino che nuovo; e veramente (anche quando non sia troppo prudente né lodevole) ha più dell'arcaismo che del neologismo. Al contrario dell'altre novità e degli altri stranierismi ec. (3867, 11 novembre 1823; 1898, vol. VI, p. 247)
  • L'esistenza può essere maggiore senza che lo sia la vita. (3927, 27 novembre 1823; 1898, vol. VI, p. 301)
  • Tutto è follia in questo mondo fuorché il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto. Tutto è vanità fuorché le belle illusioni e le dilettevoli frivolezze. (3990, 17 dicembre 1823; 1898, vol. VI, p. 361)
  • Il tale diceva che noi, venendo in questa vita, siamo come chi si corica in un letto duro e incomodo, che sentendovisi stare male, non vi può star quieto, e però si rivolge cento volte da ogni parte, e procura in vari modi di appianare, ammollire, ecc. il letto, cercando pur sempre e sperando di avervi a riposare e prendere sonno, finché senz'aver dormito né riposato vien l'ora di alzarsi. (4104, 25 giugno 1824; 1898, vol. VII, p. 23)
  • Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo [...]. (4145, 18 ottobre 1824; 1898, vol. VII, p. 70)
  • Il mezzo più efficace di ottener fama è quello di far creder al mondo di esser già famoso. (4153, Bologna, 21 novembre 1825; 1898, vol. VII, p. 80)
  • Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere; non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L'esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla. (4174, Bologna, 17 aprile 1826; 1898, vol. VII, pp. 104-105)
  • Tabacco. Sua utilità. Suoi piaceri: più innocenti di tutti gli altri al corpo e all'animo; meno vergognosi a confessarsi, immuni dal lato dell'opinione; più facili a conseguirsi, di poco prezzo e adattati a tutte le fortune; più durevoli, più replicabili. (4188, Bologna 13 luglio 1826; 1898, vol. VII, p. 117)
  • Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse pur arco il più spregevole. Ora da questa sola definizione si può comprendere che la felicità è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura tutti i viventi, soli capaci d'altronde di felicità. Un amor di se stesso che non può cessare e che non ha limiti, è incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione. Qualunque sia il bene di cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un ben maggiore, perché il suo amor proprio [amore della propria persona] non cesserà, e perché quel bene, per grande che sia, sarà sempre limitato, e il suo amor proprio non può aver limite. Per amabile che sia il vostro stato, voi amerete voi stesso più che esso stato, quindi voi desidererete uno stato migliore. Quindi non sarete mai contento, mai in uno stato di soddisfazione, di perfetto amore del vostro modo di essere, di perfetta compiacenza di esso. Quindi non sarete mai e non potete esser felice, né in questo mondo, né in un altro. (4191-4192, 30 agosto 1826; 1898, vol. VII, p. 122)
  • Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider così, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire. (4391, 23 settembre 1828; 1898, vol. VII, p. 330)
  • Ho veduto io stesso un canarino domestico e mansuetissimo, appena presentato a uno specchio, stizzirsi colla propria immagine, ed andarle contro colle ali inarcate e col becco alto. (4419; 1898, vol. VII, p. 353)
  • È curioso a vedere, che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito. (4524, Firenze, 31 maggio 1831; 1898, vol. VII, p. 461)
  • Cosa rarissima nella società, un uomo veramente sopportabile. (4525, 16 settembre 1832; 1898, vol. VII, p. 462)

Citazioni sullo Zibaldone

modifica
  • È una mole di 4526 facce lunghe e larghe mezzanamente, tutte vergate di man dell'autore, d'una scrittura spesso fitta, sempre compatta, eguale, accurata, corretta. Contengono un numero grandissimo di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni, per così dire, del giovine illustre con sé stesso su l'animo suo, la sua vita, le circostanze; a proposito delle sue letture e cognizioni; di filosofia, di letteratura, di politica; su l'uomo, su le nazioni, su l'universo; materia di considerazioni più ampia e variata che non sia la solenne tristezza delle operette morali; considerazioni poi liberissime e senza preoccupazioni, come di tale che scriveva giorno per giorno per sé stesso e non per gli altri, intento, se non a perfezionarsi, ad ammaestrarsi, a compiangersi, a istoriarsi. Per sé stesso notava e ricordava il Leopardi, non per il pubblico: ciò non per tanto gran conto ei doveva fare di questo suo ponderoso manoscritto, se vi lavorò attorno un indice amplissimo e minutissimo, anzi più indici, a somiglianza di quelli che i commentatori olandesi e tedeschi solevano apporre alle edizioni dei classici. Quasi ogni articolo di quella organica enciclopedia è segnato dell'anno del mese e del giorno in cui fu scritto, e tutta insieme va dal luglio del 1817 al 4 dicembre del 1832; ma il più è tra il '17 e il '27, cioè dei dieci anni della gioventù più feconda e operosa, se anche trista e dolente. (Giosuè Carducci)
  • A proposito di Leopardi — sia detto senza offesa — trovo che i suoi Pensieri di bella letteratura e di varia filosofia sono quanto di meglio ci sia per prender sonno (Achille Campanile).

Incipit di alcune opere

modifica

Appressamento della morte

modifica

Era morta la lampa in Occidente,
E queto 'l fumo sopra i tetti e queta
De' cani era la voce e de la gente:
Quand'i' volto a cercare eccelsa meta,
Mi ritrova' in mezzo a una gran landa,
Bella, che vinto è 'ngegno di poeta.

Discorso in proposito d'una orazione greca di Giorgio Gemisto Pletone

modifica

Tace la fama al presente di Giorgio Gemisto Pletone costantinopolitano; non per altra causa se non che la celebrità degli uomini, siccome, si può dire, ogni cosa nostra, dipende più da fortuna che da ragione. E niuno può assicurarsi, non solo di acquistarla per merito, quantunque grande, ma acquistata eziandio che debba durargli. Certo è che Gemisto fu de' maggiori ingegni e de' più pellegrini del tempo suo, che fu il decimoquinto secolo. Visse onorato dalla patria; e poi trovatosi sopravvivere alla patria, ed al nome greco (o, come esso diceva, romano), fu accolto ed avuto caro in Italia, dove stette gran tempo e morì; ed ebbe una splendidissima riputazione in questa sua nuova patria, e medesimamente nelle altre province d'Europa, per quanto si stendeva in quei tempi lo studio delle lettere.

Discorso sopra la Batracomiomachia

modifica

Quando, dopo aver letta qualche opera di autore sconosciuto, la troviamo interessante e degna di osservazione, siamo tosto spinti dalla curiosità a ricercarne lo scrittore. Avendone rilevato il carattere dall'opera stessa, bramiamo avere un nome a cui applicarlo. Ci duole d'ignorar quello di una persona che c'interessa, e di dover lodare e stimare un Essere anonimo e sconosciuto.

Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani

modifica

In questo secolo presente, sia per l'incremento dello scambievole commercio e dell'uso de' viaggi, sia per quello della letteratura, e per l'enciclopedico che ora è d'uso, sicché ciascuna nazione vuol conoscere più a fondo che può le lingue, letterature e costumi degli altri popoli, sia per la scambievole comunione di sventure che è stata fra' popoli civili, sia perché la Francia abbassata dalle sue perdite, e l'altre nazioni parte per le vittorie, parte per l'aumento della coltura e letteratura di ciascheduna sollevandosi, si è introdotta fra le nazioni d'Europa, una specie d'uguaglianza di riputazione sì letteraria e civile che militare, laddove per lo passato da' tempi di Luigi XIV, cioè dall'epoca della diffusa e stabilita civiltà europea, tutte le nazioni avevano spontaneamente ceduto di onore alla Francia che tutte le dispregiava[4];

La guerra dei topi e delle rane

modifica

Grande impresa disegno, arduo lavoro:
O Muse, voi dall'Eliconie cime
A me scendete, il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La Battaglia dei topi e delle rane.

(1821-1822)

modifica

Mentre a novo m'accingo arduo lavoro,
O Muse, voi da l'Eliconie cime
Scendete a me ch'il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La Battaglia de' topi e de le rane.

Sul cominciar del mio novello canto,
Voi che tenete l'eliconie cime
Prego, vergini Dee, concilio santo,
Che 'l mio stil conduciate e le mie rime:
Di topi e rane i casi acerbi e l'ire,
Segno insolito a i carmi, io prendo a dire.

Paralipomeni della Batracomiomachia

modifica

1
Poi che da' granchi a rintegrar venuti
Delle ranocchie le fugate squadre,
Che non gli aveano ancor mai conosciuti,
Come volle colui ch'a tutti è padre,
Del topo vincitor furo abbattuti
Gli ordini, e volte invan l'opre leggiadre,
Sparse l'aste pel campo e le berrette
E le code topesche e le basette;

2
Sanguinosi fuggian per ogni villa
I topi galoppando in su la sera,
Tal che veduto avresti anzi la squilla
Tutta farsi di lor la piaggia nera:
Quale spesso in parete, ove più brilla
Del Sol l'autunno la dorata sfera,
Vedi un nugol di mosche atro, importuno,
Il bel raggio del ciel velare a bruno.

Storia di un'anima

modifica

Incomincio a scrivere la mia Vita innanzi di sapere se io farò mai cosa alcuna per la quale debbano gli uomini desiderare di aver notizia dell'essere, dei costumi e dei casi miei. Anzi, al contrario di quello che io aveva creduto sempre per lo passato, tengo oramai per fermo di non avere a lasciar di me in sulla terra alcun vestigio durevole.

Citazioni su Giacomo Leopardi

modifica
  • A qual grado fu l'affetto di lui verso l'Italia, nel quale non si stimava secondo ad alcuno?[5] Il pessimismo avea inghiottito questo come tutti gli altri affetti. All'infuori dell'orazione agli Italiani nel 1815, tonante contro i tiranni, del progetto sfumato d'un inno alla Grecia, e delle accademiche canzoni civili della prima giovinezza, si potrà spigolare nell'opera leopardiana qualche accenno patriottico; ma i moti del '21 non lo scuotono affatto, nel 1831 quando la provincia fa conto, come notammo, sull'azione politica di lui, egli chiede che se ne scordino[6], e conviene col padre nel dar del fanatico all'eroico Broglio D'Ajano, caduto ad Anatolico per l'indipendenza ellenica[7]. (Mariano Luigi Patrizi)
  • Ad un attento esame [...], l'estetica del Leopardi sembra per un lato confondersi con la ricerca che l'artista fa di sé medesimo, per l'altro, con quella che l'uomo fa di una teoria che lo salvi dalla disperazione e dall'inerzia. Così nelle pagine dello Zibaldone crediamo di scorgere piuttosto un ideale d'arte che un concetto dell'arte, piuttosto una commossa celebrazione del potere vivificatore della poesia che una soddisfacente definizione dell'attività estetica. (Mario Fubini)
  • C'è poi quel lamentoso Leopardi, scrittore garbato, pulito e elegante, te lo concedo; ma come frigido, come diaccio e brullo! (Leo Ferrero)
  • C'era, nei muscoli, nei nervi e nel cervello di Giacomo, una dovizia di energia che si esprimeva all'esterno colla predilezione di esercizi fisici e con una personalità vigorosa. Nei giuochi e nelle finte battaglie romane, che si svolgevano entro il recinto del «paterno giardino», egli si dava la parte del leone; nelle rappresentazioni storiche si metteva sempre primo, era sempre il «trionfatore», che menava pugni sonori e ingiurie sul fratello e sugli altri ragazzi, i quali, come finti sudditi o schiavi, seguivano il suo carro. Nelle favole meravigliose, che, fanciullo di otto nove anni, aveva l'abilità di ordire e di raccontare extemporaneamente, e negli attori delle quali soleva personificare i caratteri di quelli che lo attorniavano, la parte eroica del dominatore e prepotente Filzèro[8], che ne dava a tutti e non le buscava da alcuno, la riserbava a se stesso. (Mariano Luigi Patrizi)
  • Che Giacomo, da fanciullo, non fosse gobbo, né tampoco goffo di spalla, concordano in dire quanti si ricordano di averlo conosciuto. Se, poi, col crescere, incurvò, la ragione dee interamente cercarsi nell'aver egli, nascendo, portato con sé i germi della rachitide.
    Del resto, chi più e chi meno, tutti i Leopardi, per difetto di nascita, furono rachitici. (Camillo Antona Traversi)
  • Con un po' di esercizio è possibile prendere lezioni di ottimismo anche da Giacomo Leopardi. (Gianni Rodari)
  • È stato considerato talvolta il Leopardi come un poeta filosofo, cosa che, per le spiegazioni ora date, si dimostra non esatta per lui come è sempre inesatta per ogni poeta. La sua fondamentale condizione di spirito non solo era sentimentale e non già filosofica, ma si potrebbe addirittura definirla un ingorgo sentimentale, un vano desiderio e una disperazione cosi condensata e violenta, cosi estrema, da riversarsi nella sfera del pensiero e determinarne i concetti e i giudizi. (Benedetto Croce)
  • [Sul rapporto fra Giacomo e il padre Monaldo] Giacomo era il suo doppio: il suo doppio compiuto. Era un sogno terribile. Pretendere che un figlio – un figlio che il destino gli aveva affidato come una persona diversa da lui, composta di qualità a cui mille casi contribuivano, un figlio che avrebbe dovuto abitare nella sua casa come un estraneo avventuroso e felice – diventasse la persona che lui non era riuscito ad essere. (Pietro Citati)
  • Il credo estetico del Leopardi si ricongiunge al suo credo morale, anzi, in certo senso, non è che una diversa formulazione: ciò ha ben veduto il Levi, il quale crede che l'abbandono della teoria della poesia come imitazione derivi da quella che è per lui la filosofia propria del Leopardi, un ragionato e conscio individualismo, per cui il poeta supererebbe la negazione del suo pessimismo con l'affermazione del valore intrinseco della personalità umana. (Mario Fubini)
  • Il Leopardi e il Manzoni dànno nome ciascuno a un capitolo della nostra storia letteraria contemporanea. Accadde in entrambi la medesima cosa: ebbero, cioè, l'uno e l'altro una conversione letteraria e una conversione filosofica. Nella prima tennero via parallela; nella seconda diametralmente opposta. Esordirono ambedue scrittori stranieri e mezzo infrancesati, e finirono schiettamente italiani e originali. L'uno, il Leopardi, cominciò con l'essere cristiano e non tardò quasi a divenire scettico: l'altro, il Manzoni, cominciò con l'essere scettico, o indifferente, e non tardò a divenire cristiano. (Clemente Benedettucci)
  • Il Leopardi è sempre solo ne' suoi scritti. Da quando la sua arte poetica, le sue lettere, le prose sue incominciano ad essere quello che sono nell'alta stima del pubblico letterato e non letterato, tutta la produzione leopardiana è la produzione dell'uomo solo. (Paolo Orano)
  • Il Leopardi rimane il primo vero paesista nella lirica italiana. Mentre nell'arte la pittura del paesaggio cominciava, e tentava di renderne la poesia col colore, con le sfumature del colore, il Leopardi rendeva squisitamente, nel verso, la poesia del paesaggio, con la limpida frase precisa e con la sfumatura della frase, raggiungendo la perfezione. (Raffaello Barbiera)
  • Il massimo poeta scienziato di ogni tempo fu ovviamente quel genio di Giacomo Leopardi, che da adolescente già produceva dissertazioni filosofiche sorprendenti: Sopra l'attrazione, Sopra l'estensione, Sopra l'idrodinamica, Sopra i fluidi elastici, Sopra la luce, Sopra l'elettricismo, per arrivare alla dura condanna della Natura («O natura, o natura | perché non rendi poi | quel che prometti allor? Perché di tanto | inganni i figli tuoi?») e alla conclusione che meno si conosce più si è felici, e i più felici erano gli antichi. (Massimiliano Parente)
  • Infallibile, Leopardi chiama canto la voce notturna della rana; e Leopardi era un angelo disceso, un messaggero. (Guido Ceronetti)
  • Io per me rido di tutti...; ma quel povero Giacomo, che vivo non toccò mai nessuno, e morto non si può difendere! (Pietro Giordani)
  • Io so di poter dire con sicurezza che la grandezza umana si spiega o con la prevalenza delle influenze esterne o sociali o con quella della personalità.
    Dante è capito con le prime [...]. Leopardi con la seconda; è inutile che vogliate servirvi di storia contemporanea e di vita pubblica. L'arte, la grandezza, dite pure il genio di Leopardi, sono spiegabili soltanto con l'individuo Giacomo Leopardi. (Paolo Orano)
  • L'anima del Leopardi era nobilissima, delicatissima, quella d'una creatura angelica, straboccante di desiderio d'amore e di amicizia. (Giuseppe Prezzolini)
  • La protesta per il passo della morte è più religiosa che la sua accettazione, e il Leopardi è più religioso del Croce. Dal Leopardi possono venire le aperture pratiche religiose, dal Croce può venire il servizio ai valori. Il Croce è greco-europeo, perché la civiltà europea porta al suo sommo l'affermazione dei valori. Il Leopardi comprende questi (le virtù), ma cerca gl'individui, e li vede morire, non li trova più, sono i morti. È aperto, dunque, al tu; in potenza ci sono le aperture pratiche religiose. (Aldo Capitini)
  • Nel Leopardi si trova, in forma estremamente drammatica, la crisi di transizione verso l'uomo moderno; l'abbandono critico delle vecchie concezioni trascendentali senza che ancora si sia trovato un ubi consistam morale e intellettuale nuovo, che dia la stessa certezza di ciò che si è abbandonato. (Antonio Gramsci)
  • Nessun prete voleva riceverlo in chiesa. Il Ranieri parlò a parecchi parrochi, e tutti no: gli fu indicato quello di San Vitale come uomo di manica larga e ghiotto di pesci. Ei tosto corse a la Pietra del pesce, comperò triglie e calamai, e ne mandò un bel regalo al parroco, il quale si lasciò persuadere, e fece allogare il cadavere nel muro esteriore accanto la porta della chiesa. Così per pochi pesci Giacomo Leopardi ebbe sepoltura. Queste cose me le diceva il Ranieri, ed è bene che il mondo le sappia queste cose. (Luigi Settembrini)
  • Noi, fatta qualche eccezione per la seconda metà del settecento, se pur c'è da farla, non abbiamo avuto fino al Leopardi un solo lirico intimo, nel vero senso della parola. (Giacomo Barzellotti)
  • Non bisogna lasciarsi fermare dalla somma correttezza e proprietà ed eleganza con la quale la poesia del Leopardi si presenta, ma guardare in là e osservare che sotto quella irreprensibilità letteraria, se non si avverte mai vuoto nel pensare e nel sentire, nondimeno, poeticamente, si ritrova ora il forte ora il fiacco, ora il pieno e ora il lacunoso, e affermare che la poesia del Leopardi è assai più travagliata di quanto non si sospetti o di quanto non si creda. C'è in essa dell'arido, c'è della prosa, c'è del formalmente letterario, e c'è insieme poesia dolcissima e purissima e armoniosissima ; e forse quell'impaccio, che precede o segue i liberi movimenti della fantasia e del ritmo, fa meglio sentire il miracolo della creazione poetica. (Benedetto Croce)
  • Per Leopardi scrivere una pagina sola, o comporre una strofa, non era un'avventura, così neppure era un'avventura vivere. Alla vita sapeva sopra tutto quello che non poteva chiedere, e di quali pericoli era gravato quel poco bene. Gli mancava la bella confidenza: ma, in compenso, gli era stato dato in sorte un dono: quello di sorridere e fantasticare. (Giuseppe De Robertis)
  • Se c'è un poeta moderno la cui opera dia l'impressione di muoversi a un tempo, per un miracoloso dono d'ubiquità, nelle sfere ideali che abbiamo simboleggiato con le formule di canzoniere e poesia pura, quel poeta è Giacomo Leopardi. (Renato Poggioli)
  • Sono convinto che Giacomo Leopardi sia un amante straordinario della vita, un pessimista allegro, in pratica un ottimista. (Giancarlo Giannini)
  • Sulle sue idee, certamente c'è poco da equivocare. Ma dove, principalmente, egli le espose e le ragionò?
    Nelle grandi liriche, nelle composizioni in cui la fantasia e l'estro si accendono al calor bianco e cercano di raggiungere per ineluttabili scorciatoie i significati assoluti. È lo stato più estraneo alla coscienza vera, al giudizio accettato dalla ragione, quello che genera canti come A se stesso o La Ginestra. In quella loro altezza disperata si confonde davvero con la negazione una più alta e improvvisa accettazione dell'idea divina. (Giovanni Artieri)
  • Tutto Leopardi è un momento della polemica tra Socrate e i Dicasti, tra Gesù e i Farisei, tra Bruno e Bellarmino: la gran battaglia tra Lao-tse e Confucio, cioè tra l'uomo spontaneo e il funzionario. (Massimo Bontempelli)
  • Un libro su Leopardi non può cominciare che come un'opera buffa: preferibilmente di Gioachino Rossini, che era nato vicino a Recanati, a Pesaro, e poi aveva infiammato Milano, Roma, Parigi e tutto il mondo musicale. Il protagonista di questa opera buffa non è Giacomo, sebbene amasse sino alle lacrime Il barbiere di Siviglia e La donna del lago, ma suo padre Monaldo, nato a Recanati nel 1766 da un'antica famiglia che risaliva, o diceva di risalire, al tredicesimo secolo. (Pietro Citati)
  • Venuto a contatto con gli intellettuali progressisti del gabinetto Vieusseux, Leopardi invece di rifiorire a nuova vita, si chiuse, dopo il primo entusiasmo, ancora di più nella propria solitudine. (Giacinto Spagnoletti)
  • Leopardi e Schopenhauer sono una cosa. Quasi nello stesso tempo l'uno creava la metafisica e l'altro la poesia del dolore. Leopardi vedeva il mondo così, e non sapeva il perché. Arcano è tutto fuorché il nostro dolor. Il perché l'ha trovato Schopenhauer con la scoperta del Wille.
  • Leopardi ragiona col senso comune, dimostra così alla buona come gli viene, non pensa a fare effetto, è troppo modesto, troppo sobrio. Lo squallore della vita che volea rappresentare si riflette come in uno specchio in quella scarna prosa; il suo stile è come il suo mondo, un deserto inamabile dove invano cerchi un fiore.
  • Leopardi s'incontra ne' punti sostanziali della sua dottrina con Schopenhauer; ma gli sta di sotto per molti rispetti. Primamente Leopardi è poeta; e gli uomini comunemente non prestano fede ad una dottrina esposta in versi; ché i poeti hanno voce di mentitori.
  • Perché Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell'umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l'onora e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita infino al quarantotto, senti che te l'avresti trovato accanto, confortatore e combattitore. Pessimista od anticosmico, come Schopenhauer, non predica l'assurda negazione del Wille, l'innaturale astensione e mortificazione del cenobita: filosofia dell'ozio che avrebbe ridotta l'Europa all'evirata immobilità orientale, se la libertà e l'attività del pensiero non avesse vinto la ferocia domenicana e la scaltrezza gesuitica. Ben contrasta Leopardi alle passioni, ma solo alle cattive; e mentre chiama larva ed errore tutta la vita, non sai come, ti senti stringere più saldamente a tutto ciò che nella vita è nobile e grande. L'ozio per Leopardi è un'abdicazione dell'umana dignità, una vigliaccheria; Schopenhauer richiede l'occupazione come un mezzo di conservarsi in buona salute.
  • La sensibilità per ogni suono era nel Leopardi inaudita, e l'anima come da un vivido raggio tutta ne rimaneva penetrata. Forse quelle voci, quei suoni che lontanando morivano, la mesta melodia che salutava la luce estrema, fuggente, agivano con forza arcana perché risonanti nell'alta quiete e nel silenzio, e popolavano d'un tratto le solitudini che rendevano più misteriose e profonde; poi si estinguevano e il silenzio raddoppiava.
  • Non conveniva un gran mondo a questo poeta assorto nell'eremo dell'anima, tutto intimità e fervoroso e doloroso raccoglimento. Lo sbigottisce lo strepito; lo spaurano i grandi spettacoli; dove è solitudine, alto silenzio, profonda quiete si ritrae pensoso, e pende, attiva lo spirito. Ad ogni più lieve stimolo il sentimento è desto; ogni più minuta cosa colpisce il suo sguardo che l'afferra limpidissima. Fuori della sua concentratissima sfera di vita la visione gli si turba, il dilettoso fantasma gli vanisce. Non distoglietelo; preservatelo dalla folla; lasciategli la sua piccola isola di contemplazione, dove si rifugia e dove giungon morte le onde dei rumori mondani. Idillica l'anima, all'idillio si atteggia la natura che lo attrae, lo commuove e gli divien famigliare. Il suo ermo colle, la sua siepe, il suo rialto sovra l'erbe, dove ama sedere e assorbirsi, solingo e muto, la sua distesa di prato che verdeggia, il suo ciel sereno, il suo sole che indora le vie e gli orti, la sua tacita, chiara e bianca luna, quei suoi lembi di campagna che dischiudono un ampio orizzonte, il mar da lungi, il monte; che altro occorreva al «promeneur solitaire» di Recanati, per suscitare fantasmi allo spirito, affetti al cuore?
  • Se badate, sono le piccole, tenuissime cose, le scene più intime e romite quelle a cui più si affeziona. Il paesaggio più semplice e disadorno può suscitargli la commozione più viva e più dolce; la vibrazione dell'anima più intensa muove talora da una immagine lieve, tenerissima, da un fuggevole tocco, da un suono leggerissimo, da un minimo ricordo, soave o doloroso. Ai superlativi del sentimento nella lirica che gli sgorga nella pienezza del cuore fanno riscontro i diminutivi che trasceglie e vezzeggia: la gallinella, il villanello, la donzelletta, il vecchierello, i mugoletti, la finestrella sopra la scaletta. Questa risonanza profonda nell'anima dei più minuti, o comuni spettacoli forma l'incanto maggiore della poesia del Leopardi.
  • Alcuni dei germi più preziosi del pensiero cristiano si erano [...] meravigliosamente abbarbicati nell'animo del Leopardi, come nel più propizio dei terreni: questi erano un amore spasimato, com'egli diceva, della virtù[9], una focosa aspirazione alla purezza, un desiderio del sacrifizio, una misera stima del mondo[10], la brama del Bello e del Bene assoluto. Quest'ultima guidò le sue riflessioni intorno alla filosofia sensista; dove si occupò principalmente di chiarire quale origine rimanesse assegnata alle idee del Bello e del Buono. Come si vide pervenuto alla conclusione che tutti i nostri giudizi sono relativi e frutti di assuefazione, e che il Bello e il Buono assoluto non esistono, non senza terrore ne ricavò la conseguenza che Dio stesso, creduto fino allora tipo ed origine di ogni perfezione, non esiste. Una simile conclusione gli ripugnava talmente, che tentò subito di restaurare il concetto della Divinità sopra un nuovo fondamento; supponendo che l'essenza di essa consistesse nell'infinita possibilità, dalla quale deduceva l'onnipotenza; e ne abbozzava un sistema che gli sembrava quadrare, anzi essere il necessario fondamento delle verità cristiane.
  • Chi consideri le circostanze della sua giovinezza, può trovare da ammirare, che uno spirito cotanto bisognoso del Bene sopramondano non si volgesse naturalmente alla religione. Nella casa paterna, ch'egli amò teneramente anche quando non poté più tollerare di vivere a Recanati, si può dire che si respirasse un'aria impregnata di severo spirito cristiano. La madre governava sé e la famiglia con principi e massime ascetiche. Il padre era una nobile tempra d'uomo; appassionato degli studi, autore di numerosi scritti di argomento politico storico religioso, zelantissimo della cosa pubblica, scrivendo e operando con fiera indipendenza e incontaminata purezza. Il fanciullo Giacomo cresceva a quell'esempio fra i gravi in-folio della biblioteca adunata da Monaldo, immerso negli studi di antiche letterature e di storia ecclesiastica, guardato con orgogliosa compiacenza dal padre, il quale senza dubbio sognava grandezze di carriera ecclesiastica per il precoce e infaticabile primogenito.
  • Il Leopardi, come Dante, volle essere pensatore e uomo prima che poeta: e nessuna cosa sentì più amaramente, che le sue opinioni esser messe da banda con dirle un effetto delle sue personali sventure[11].
  • Negli ultimi anni sentì chiaramente di aver fatto parte per se stesso, e di essere spiritualmente solo. Combatté con amara satira così i molli e nebulosi restauratori della religione, come i superficiali lodatori della scienza e delle sue virtù benefiche. – Il suo argomento capitale contro la fede cristiana nel Dio redentore, che dopo la scoperta di Copernico non sia più lecito attribuire alla terra e all'uomo una condizione di privilegio fra gli esseri, è molto debole: perché confonde l'ordine fisico con l'ordine spirituale. Credo che realmente la sua miscredenza avesse una radice più profonda, in un libero atto iniziale, a cui si mantenne sempre fedele con onesta coerenza: risoluto di vivere e di operare per gli uomini del suo tempo, si mise prima alla loro scuola, e accettò la tendenza prevalente nel mondo moderno di affidarsi unicamente al lume della propria ragione: onde poi si vantava di avere apertamente ripudiato quelle credenze che molti ancora simulavano, per non potersi adattare alle cerimonie, e voler scrivere in lingua moderna, non dei tempi troiani [12].
  • Leopardi è ancora solo. La sua poesia sarà sempre in alto e sola, nell'eternità.
    Che grande errore imporla nelle scuole, trascinare la dolente pensosa figura del poeta per le chiuse aule scolastiche dove è appena lecito declamare per esercitazioni mnemoniche e oratorie: Ancor dal monte...[13] o Agile e solo vien di colle in colle...[14] Habent sua fata pöetae. Non c'è al mondo altra poesia più della leopardiana lontana dalla scuola e dalla mentalità scolastica, se togli la canzone all'Italia e l'altra per il monumento di Dante; eppure il destino del Leopardi è stato questo: che il riconoscimento della grandezza della sua poesia dovesse essere ufficiale, incominciando dalla scuola, sulla cui soglia la si abbandona quando si entra nella vita.
  • Nessun amore del Leopardi risulta poeticamente giustificato. Fantasie, sogni torbidi, vaneggiamenti: amore no. Nessuna figura di donna ha lasciato nell'anima e nel corpo del poeta un solco profondo. Non possiamo immaginare che vergine il Leopardi: vergine nella carne e nell'anima, con le labbra sottilissime immuni di contatto carnale. In poesia figure di donne passano fugacemente e vaniscono: Silvia, Nerina, Geltrude Cassi e qualche altra. Apparizioni. Dico che questi amori, vissuti forse realmente ma non poeticamente appieno, e passati così, inani, non giustificano empiricamente questo inabissamento e annihilamento del mondo, dello spazio, del tempo, della propria personalità e del mondo esteriore, ridotti al nulla eterno, alla indifferenza assoluta, alla non esistenza. Che diventa materia di poesia. Nella distruzione tragica del mondo circostante, tempo e spazio, qualche cosa si salva, vien su da tanta feroce e voluttuosa rovina, la coscienza di sé, la coscienza dell'intimo individuale dolore.
  • Tolte le canzoni di carattere patriottico ed encomiastico, il mondo poetico del Leopardi si riduce a quello morale e a quello sentimentale - critico che è assorbito dal primo perché le donne amate dal poeta sono come foglie cadute, figure di cose passate, travolte dalla morte, tornate nel nulla. E queste figure di donne senza contorni, senza qualità speciali, inindividuate, non sono mai il centro di una rappresentazione di arte, ma pure entrando direttamente nella emozione e nella ispirazione del poeta, restano poi fuori della poesia alla quale non importa che cantare il pensiero dominante: il nulla, il vuoto, nulla l'amore, nulla l'illusione, nulla la gloria.
  1. Spaesato. Cfr. Protagonisti della civiltà letteraria nella critica, p. 613.
  2. A proposito del verso «E chiaro nella valle il fiume appare», Umberto Saba scrisse nelle sue Scorciatoie: «Letteratura italiana. Potrebbe rimanere, di secoli di noia, un verso: il più bello, il più inutile, il più melanconico, il più perfetto che sia mai stato scritto.»
  3. Anche in Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, in Operette morali: «Il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente».
  4. In vece che adesso la Francia stessa per le dette cagioni è fatta tollerante e disposta a render giustizia agli stranieri fino a un certo segno, e che questa sua disposizione, perocch'ella segue ancora in parte a dare il tuono all'Europa civile, ne cagiona una simile nelle altre nazioni. [N.d.A.]
  5. Lettera del Viesseux, 5 gennaio 1824. [N.d.A.]
  6. Lettera al padre, 29 marzo 1831. [N.d.A.]
  7. Lettera del 22 luglio 1828. [N.d.A.]
  8. Teresa Teja Leopardi, Note biografiche sopra Leopardi e la sua famiglia, pag. 31-33. [N.d.A.]
  9. Lettera al conte Xaverio Broglio d'Ajano del 13 agosto 1819. [N.d.A.]
  10. Canzone Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, in fine, in Scritti vari, p. 35. [N.d.A.]
  11. Lettera al De Sinner del 24 maggio 1832. [N.d.A.]
  12. Dialogo di Timandro e di Eleandro. [N.d.A.]
  13. Carducci, Alle fonti del Clitumno.
  14. Carducci, La chiesa di Polenta.
  1. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto, Hoepli, 1921, p. 286.
  2. Da Saggio sugli errori popolari degli antichi, in Tutte le opere, a cura di Lucio Felici, Lexis Progetti Editoriali, Roma, 1998. ISBN 88-87083-04-5.
  3. Da Letta la vita dell'Alfieri scritta da esso.
  4. Da una lettera del maggio 1833 a Charlotte Bonaparte; citato in Leopardi progressista e razionalista? Un mito sfatato, il Giornale.it, 20 luglio 2010.
  5. Da Lettere al fratello Carlo, p. 43.
  6. Da Annotazioni alle Canzoni (1824-25), in Canti, a cura di Leone Ginzburg, Gius. Laterza & Figli, Bari, 1938, p. 200.
  7. Dalla lettera al fratello Carlo, Roma, 20 febbraio 1823; citato in W. Binni, Note leopardiane I. La lettera del 20 febbraio 1823, «La Rassegna della letteratura italiana», a. LXVII, serie VII, n. 2, Firenze, maggio-settembre 1963, pp. 193-199. Disponibile su ilponterivista.com.
  8. Dal Preambolo del volgarizzatore al Manuale di Epitteto, in Opere di Giacomo Leopardi, vol. II, Le Monnier, 1865, p. 213.
  9. Rispondendo, il 5 aprile 1823, ad una lettera del fratello Carlo, che gli aveva narrato di un suo amore non platonico; citato in Giovanni Mestica, Studi leopardiani, pp. 105-106.
  10. Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli.
  11. Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. II, a cura di Prospero Viani, Le Monnier, Firenze, 1892, p. 443.
  12. Citato in Michele Scherillo, Vita di Giacomo Leopardi, Greco & Greco Editori, Milano, 1991, p. 191. ISBN 88-85387-64-0
  13. Cfr. anche Zibaldone, 60 (prima del 1820), 2255 (15 dicembre 1821), 2322-2323 (2 gennaio 1822).
  14. Cfr. anche Zibaldone, 507-508 (15 gennaio 1821) e 4523 (29 luglio 1829).
  15. Cfr. anche Zibaldone, 1252, 30 giugno 1821.
  16. Cfr. anche Zibaldone, 1787-1788, 25 settembre 1821.
  17. Cfr. anche Zibaldone, 612-613, 5 febbraio 1821.
  18. Cfr. anche Zibaldone, 4306-4307, 15 maggio 1828.
  19. Cfr. anche Zibaldone, 116-117, 9 giugno 1820.
  20. Cfr. anche Zibaldone, 4391, 23 settembre 1828.
  21. Cfr. anche Zibaldone, 4482, 4 aprile 1829: «Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non passarli mai.»

Bibliografia

modifica

Voci correlate

modifica

Altri progetti

modifica
 
Medaglia di Wikiquote
Questa è una voce in vetrina, il che significa che è stata identificata come una delle migliori voci prodotte dalla comunità.
È stata riconosciuta come tale il giorno 15 ottobre 2005.
Naturalmente sono ben accetti suggerimenti e modifiche che migliorino ulteriormente il lavoro svolto.

Segnalazioni · Criteri · Elenco voci in vetrina

  NODES
Done 18
globi 1
orte 33