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raccapezzar nulla, neanche un chicco di grano o un pugnellino di crusca.

― Che abbiano intenzione di farmi morir di fame? ― chiesi a me stesso raccapricciando; e sentendomi scorrer per le vene un brivido di terrore, mi rifugiai in un cantuccio e piansi.

Piansi il fiore della diletta gioventù, che forse la sciagurata cameriera si preparava a rapirmi, piansi le belle levate di sole del mio paese, i tramonti luminosi, i fili d’erba luccicanti di rugiada, i chicchirichì dei miei compagni, e finalmente le abbondanti colazioni e la vita spensierata.

Tanta felicità non poteva durare.

Spesso, allorchè il sole splendeva maestoso in mezzo all’orizzonte, e che uomini e bestie si riposavano dalle fatiche durate sotto la fresca ombra de’ faggi, mia madre mi chiamava a sè e mi diceva:

— Figlio mio, mio dolce e caro figliolino (che bei nomìni sanno dare le mamme!) ora la vita ti sorride, e ovunque tu volga lo sguardo non vedi che volti affettuosi, copia di cibo e serenità di cielo. Se qualche volta per aver mangiato un po’ troppo, o per qualche altro malanno sei obbligato a startene in riguardo, i fratellini ti tengono compagnia, e la mamma veglia amorosa su te.

Credi però che sempre ti possa andar così? Ahimè! piccino mio, il tempo corre, e seco ne porta i giorni più belli. Crescerai e anche per te verrà la sventura, e dovrai soffrire le persecuzioni de’ galletti tuoi compagni, le risse delle galline e i capricci de’ tuoi padroni. Fortunato almeno se dopo tante pene, e allorchè sarai in diritto di aspettarti una vita comoda e ri-

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