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con quell’insulto che diceva la distanza da cui erano separati il signore vizioso ma bene educato e il manesco villano ringentilito. Facchino, sì, approvava Pasqualino: tra persone d’una certa nascita le questioni non vanno definite a pugni: e con quella parola appunto il conte rammentava al suocero l’onore fattogli sposando sua figlia; e se il barone restava immobile come una statua era perchè subitamente riconosceva d’esser nel torto. La parentela con gli Uzeda non gli era parsa una fortuna? L’orgoglio d’essere entrato nella famiglia dei Vicerè non l’aveva accecato al punto di non scorgere per tanti anni il sacrifizio della figlia? Un confuso e quasi istintivo sentimento della propria inferiorità dinanzi al genero non lo aveva impacciato ogni volta che, aperti gli occhi, s’era proposto di rinfacciargli la sua condotta, i suoi vizii, la sua durezza, il sangue avvelenato all’innocente bambina? Facchino, sì; egli meritava l’insulto se, lasciandosi trasportare dall’ira, aveva voluto definire la lite come tra cocchieri; e aveva riconosciuto di meritarlo, ad alta voce, dinanzi al genero, prima di voltargli le spalle. Perchè infatti la scena non era finita in quel punto, aveva avuto una piccola coda che Pasqualino narrava solo a quattr’occhi. «Io facchino.... sì....» aveva balbettato il barone; «ma tu?...» E ad un tratto gli aveva buttato in faccia una parola che il cocchiere ripeteva, piano, all’orecchio delle persone....

Raimondo lasciò allora immediatamente la sua casa, corse dall’amica, la costrinse a far le valigie e la condusse seco in Sicilia.


Dovette costringerla, perchè infatti donna Isabella non era ben sicura dell’opportunità di quel viaggio. Ella vedeva che Raimondo voleva condurla al suo paese per rompere clamorosamente e definitivamente coi Palmi; ma comprendeva pure che soltanto l’eccitazione dei contrasti sofferti e l’impeto dell’odio provocato dalla tem-

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