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I Vicerè 53

piedi, mutò posto: lasciata la finestra si mise dietro al giudice, in modo non solamente da udir meglio, ma da verificare con l’occhio la fedeltà della lettura. Il principe teneva le braccia incrociate sul petto e il capo un po’ chino; Raimondo batteva un piede, guardando per aria, seccato.

«Di tutta questa sostanza io sono l’unica e sola donna e padrona, sì per la parte che rappresenta la mia dote in essa investita, sì perchè il rimanente è frutto dei miei capitali parafernali e dell’opera mia, come ne fa ampia e piena fede il testamento del benamato mio sposo Consalvo VII, il quale dice così....»

Il giudice sostò un momento per osservare:

― Credo che possiamo saltare questo passaggio....

― Infatti.... È inutile ― risposero parecchie voci....

Il principe invece, sciolte le braccia, protestò, guardando in giro:

― No, no, io desidero che le cose si facciano in piena regola.... Leggete tutto, di grazia.

E il lettore riprese:

«. . . . il quale dice così: «Sul punto di rendere a Dio l’anima mia, non avendo nulla da lasciare ai miei figli, perchè, come essi un giorno sapranno, il nostro patrimonio avito fu distrutto in seguito a disgrazie di famiglia, lascio ad essi un prezioso consiglio: di obbedir sempre alla loro madre e mia diletta sposa, Teresa Uzeda, principessa di Francalanza, la quale, come si è finora sempre ispirata al bene della nostra casa, così continuerà per l’avvenire a non avere altra mira fuorchè quella di assicurare, col lustro della famiglia, l’avvenire dei nostri figli benamati. Faccia il Signore che ella sia ad essi conservata per mille anni ancora, e il giorno che all’Onnipotente piacerà ridarmela compagna nella vita migliore, seguano i miei figli fedelmente le sue volontà, come quelle che non potranno esser dirette se non al loro bene ed alla loro fortuna.»

«I miei cari figli, adunque,» continuava la testatrice «non potranno dare miglior prova della loro af-

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