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Quando lo incontrava, ed egli sembrava implorare uno sguardo, un sorriso, i ben calcolati propositi svanivano: ella passava a occhi bassi, rigida e severa come una dea.

Quello che avrebbe voluto fare, sorpassava le sue forze.

— Non sono ingrata — diceva a se stessa — non sono vile, eppure non posso. Dovrebbero pigliarmi per mano, condurmi all’altare: direi di sì senza piangere e mi lascierei portare nella casa di quell’uomo. Forse morirei, certo non direi nulla. Ma fingere d’amarlo, sorridergli, chiamarlo a me. Impossibile!....

Intanto i giorni scorrevano, apparentemente tranquilli.

Già un mese era trascorso dacchè Annetta era fidanzata. Paolo andava a trovarla tutti i giorni, dopo l’ufficio; ogni domenica la signora Cleofe lo invitava a pranzo, ed egli passava la serata in famiglia. Ma le visite quotidiane erano spesso assai brevi, e Annetta non poteva nascondere le sue malinconie. Quando il giovine diceva: «Ora devo andare,» ella trasaliva e non sempre poteva frenare le lagrime.

Tutti le davano della bambina. Che cosa pretendeva? Che il fidanzato stesse sempre lì cucito alle sue gonnelle? O che fantasie aveva?

D’altronde Paolo affermava che la sera doveva ritornare all’ufficio, o lavorare in casa. Non di rado, però, una circostanza fortuita o un discorso casuale

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