Storia della letteratura italiana/Giosuè Carducci

Storia della letteratura italiana

Il Romanticismo, nonostante la sua affermazione come corrente dominante nella cultura europea della prima metà dell'Ottocento, non elimina gli elementi classicisti tipici della letteratura italiana. Negli anni in cui si compie l'unità d'Italia il classicismo perde i suoi caratteri illuministi e assume il compito di rivendicare una tradizione secolare propria della cultura nazionale italiana. Negli anni sessanta si diffonde inoltre un sentimento di fastidio per il Romanticismo convenzionale, a cui il classicismo contrappone la necessità di tornare alla realtà – una realtà però controllata, secondo il linguaggio dei classici. In questo contesto si colloca l'esperienza del sacerdote Giacomo Zanella (Chiampo, 9 settembre 1820 – Cavazzale di Monticello Conte Otto, 17 maggio 1888), che nelle sue poesie mescola patriottismo, spirito religioso e una cauta fiducia nel progresso scientifico. Fu però con Giosuè Carducci che il classicismo si impose come modello, perché accolto dall'opinione pubblica in chiave nazionalistica.[1]

La vita

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Giosuè Carducci

Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci nasce a Valdicastello, in Versilia, il 27 luglio 1835. Trascorre gran parte dell'infanzia in Maremma (1838-1849), dove il padre è medico condotto, abitando per lo più a Bolgheri e Castagneto. È proprio il padre, uomo colto di idee liberali che si interessa di letteratura classica e contemporanea, a stimolare la crescita culturale del figlio. Nel 1849, quando questi perde la condotta a causa delle sue opinioni politiche, l'intera famiglia si trasferisce a Firenze, dove Giosuè frequenta le scuole dei padri scolopi. Nel 1856 si laurea quindi in filosofia e filologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Durante gli studi universitari partecipa alla società degli Amici pendanti, che polemizza contro le posizioni letterarie romantiche e propone un ritorno al classicismo. Nel 1856 è docente al ginnasio di San Miniano e pubblica la sua prima raccolta di Rime. Questo periodo è però segnato da alcuni lutti: nel 1857 il fratello Dante si suicida e l'anno successivo scompare anche il padre. Per far fronte alle difficoltà economiche della famiglia, Giosuè inizia a curare le edizioni di classici della letteratura italiana per l'editore Barbéra di Firenze. Nel 1859 sposa Elvira Menicucci, da cui ha tre figlie femmine e un maschio, Dante.[2]

Nel 1859 diventa professore al liceo di Pistoia, quindi l'anno successivo è nominato docente di eloquenza nell'ateneo di Bologna. Lo stato unitario che si forma in quegli stessi anni suscita inizialmente il suo entusiasmo, che però si trasforma in delusione per le scelte politiche della nuova classe dirigente. A questo si aggiunge l'insoddisfazione per la propria condizione economica e familiare. La lettura di autori come Michelet, Quine e Heine lo induce ad abbracciare posizioni repubblicane e giacobine, che lo portano a un acceso anticlericalismo, arrivando a professare tesi anarchiche e socialiste. Per questi motivi, subisce repressioni da parte delle autorità e nel 1868 è sospeso per breve tempo dall'insegnamento.[2]

Nel 1870 Carducci è colpito da due nuovi lutti: la morte della madre e quella del figlioletto Dante. Negli stessi anni, però, conosce grande successo come poeta con la pubblicazione delle Poesie nel 1871. Nel 1872 allaccia inoltre una relazione sentimentale con Carolina Cristofori Piva, moglie di un colonnello, che dura fino al 1878. Intanto, nel 1876 viene candidato al parlamento. La conquista di Roma lo porta infatti a un radicale cambiamento di posizione, fino ad accettare la casa Savoia come garante dell'unità italiana. In occasione di un incontro con la famiglia reale nel 1878, compone l'ode Alla regina d'Italia in onore alla regina Margherita, che aveva dimostrato di apprezzare i suoi componimenti. Sostenitore della politica di Crispi, negli anni ottanta si afferma come poeta ufficiale dell'Italia umbertina e nel 1890 è nominato senatore. Negli ultimi anni vive altre storie d'amore e cura l'edizione completa delle sue opere presso l'editore bolognese Zanichelli. Lasciato l'insegnamento nel 1904, è insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1906, primo italiano a ricevere questo riconoscimento. Muore a Bologna il 16 febbraio 1907.[3]

Poetica e pensiero

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Gli Amici pedanti: Torquato Gargani, Giosue Carducci, Giuseppe Chiarini. Manca Ottavio Targioni Tozzetti

L'amore per la patria al di sopra di tutto: se si comprende a fondo questo motto la poetica carducciana risulta già spiegata nelle sue linee essenziali. Si aggiunga un innato amore per il bello, per la natura, un'incondizionata adesione alla vita nelle sue espressioni più genuine, e il quadro potrà dirsi completo. Le scelte di campo contingenti, i diversi schieramenti politici e ideologici cui dovette aderire nel tempo, sono solo una conseguenza del suo carattere schietto e impermeabile a ogni forma di doppiezza, e non contengono al loro interno alcuna contraddizione.[4]

Per questo con Carducci si ebbe una reazione al tardo romanticismo (Giovanni Prati, Aleardo Aleardi, Francesco Dall'Ongaro), perché il raggiungimento dell'unità nazionale richiedeva forza e virilità, non l'abbandono a svenevoli malinconie. In particolare la sua reazione vide il ritorno ai classici e la ricerca di una lingua che avesse dignità letteraria. La poetica romantica andava sempre più declinando verso una tenerezza piagnucolosa, verso il facile sentimentalismo e una sorta di languore del tutto contrari all'impetuoso temperamento carducciano, volto a ristabilire attraverso l'esempio antico un modello di società in cui regnino la giustizia e la libertà.[5]

La poetica di Carducci non fu mai antitetica rispetto a quella romantica. L'amore per la vita, per la natura, per il bello non hanno nulla di antiromantico. Le polemiche giovanili avevano un senso nell'ottica della temperie risorgimentale, che portava il Carducci a demonizzare tutto ciò che potesse frapporsi alla riconquista della libertà che fece grande Roma e degni di imperitura gloria i comuni italiani nel Medioevo (in questo senso va intesa l'idiosincrasia iniziale per le letterature straniere). Quando, a bocce ferme, si diede ad un'analisi puramente artistica della letteratura, imparò ad amare i grandi scrittori e pensatori francesi, i grandi poeti tedeschi, e rivalutò molti romantici, il Prati e il Manzoni in primo luogo.

Dei francesi trascurò quelli saliti alla ribalta negli anni della sua giovinezza; non si entusiasmò quindi per Hippolyte Taine o Gustave Flaubert, tanto per estrapolare due nomi soltanto dalla nutrita schiera di pensatori positivisti o scrittori naturalisti che avranno in Émile Zola l'esponente più maturo e culminante. Al contrario, gli ardori carducciani portavano il giovane a infervorarsi per gli spiriti libertari e rivoluzionari di qualche anno prima; era in autori come Victor Hugo, Proudhon, Jules Michelet, Louis Blanc, Augustin Thierry o Heinrich Heine (che può considerarsi francese d'adozione) che Carducci vedeva riflesse le proprie aspirazioni e i propri sogni, le proprie speranze in una società dove l'uomo possa finalmente trovare libertà e dignità.[6][7] Attraverso queste letture poté in maniera del tutto naturale innamorarsi di coloro che, a loro volta, le avevano ispirate: gli illuministi del XVIII secolo, Voltaire, Diderot e D'Alembert.[8]

 
Giosuè Carducci negli anni settanta dell'Ottocento

Il sentimento della vita, con i suoi valori di gloria, amore, bellezza ed eroismo, è senza dubbio la maggior fonte d'ispirazione del poeta, ma accanto a questo tema, non meno importante è quello del paesaggio. Un altro grande tema dell'arte carducciana è quello della memoria che non fa disdegnare al poeta vate la nostalgia delle speranze deluse e il sentimento di tutto quello che non c'è più, anche se tutto viene accettato come forma della vita stessa. La storia, però, governata da una legge imperscrutabile procede verso il meglio, ed è attraverso la lezione dei classici prima, dei comuni medievali e del Risorgimento poi, che il presente deve esprimere una società migliore.[9]

La costruzione della poesia di Carducci fu di ampio respiro, spesso impetuosa e drammatica, espressa in una lingua aulica senza essere sfarzosa o troppo evidenziata. Carducci sentì vivamente il clima di fermo impegno morale del Risorgimento e volle, in un momento di crisi di valori, far rinascere quella forza interiore che aveva animato le generazioni del primo Ottocento. La ricostruzione storica per i romantici era pretesto di esortazione all'azione, mentre per lui è solo ripensamento nostalgico di un tempo eroico che ormai non c'è più (per esempio esalta la civiltà romana in Dinanzi alle terme di Caracalla o gli ideali del libero comune medievale ne Il comune rustico. Nel componimento Nell'annuale della fondazione di Roma mostra il suo spirito retorico, come nel verso "cantici di gloria di gloria correran per l'infinito azzurro"). Carducci manifesta anche la concezione della nemesi storica, secondo cui le colpe dei tiranni sono scontate dai discendenti anche più lontani (Per la morte di Napoleone Eugenio; Miramar). Nelle Rime nuove contempla la natura che gli appare ora irta e selvaggia (Traversando la Maremma toscana), ora dolcemente malinconica poiché è testimone di un tempo felice oramai trascorso (Nostalgia), ora luminosa e piena di forza e serenità (Santa Maria degli Angeli).

Il suo spirito fu veramente erede del primo Romanticismo, da cui riprese l'amore della libertà, la fede pugnace negli ideali, l'esaltazione gloriosa della storia medievale, la contemplazione commossa e nostalgica della natura, il rimpianto dei sogni giovanili, la pensosa meditazione sul destino umano e sulla morte. Non manca però anche un evidente legame con la cultura del positivismo: fiducia nella ragione, nella scienza e nel progresso, negazione di ogni prospettiva metafisica ed escatologica. Bisogna tuttavia prestare molta attenzione circa il rapporto tra Carducci e la religione. Parlare di un Carducci ateo o antireligioso sarebbe un grave errore. Dopo la formazione cattolica ricevuta in famiglia e presso gli Scolopi, il poeta assunse un atteggiamento estremamente aggressivo nei confronti della Chiesa e dei preti, ma ciò fu dovuto ad altri motivi, e potrebbe essere paradossalmente addirittura assunto a prova della sua profonda religiosità e di una naturale affinità con l'insegnamento di Cristo: insegnamento che vedeva sbeffeggiato proprio da coloro che lo predicavano. La Chiesa era contraria alle ideologie risorgimentali e alla Rivoluzione Francese, e in virtù dell'alleanza con gli austriaci predicava una morale della rinuncia che costituiva un chiaro ostacolo sulla via dell'unità nazionale. In quanto tale Carducci, naturalmente innamorato dell'energia vitale dell'uomo, oltre che della storia d'Italia, non poté che avversarla.[10] La missione morale e civile da lui affidata alla poesia, la necessità di conformare la propria vita a quanto predicato artisticamente e la profonda convinzione di un imperscrutabile motore della Storia (evidente più che mai nelle Odi barbare) sono però in totale sintonia con lo spirito cristiano, oltre che con gli amatissimi modelli classici.[11]

I motivi per cui Manzoni ammirava Virgilio o Orazio erano del tutto simili, e anche se sulla pagina scritta il giovane Giosuè si scagliò contro il romantico per antonomasia, i due professavano in realtà la stessa cosa.[12] Uno la poneva sul piano cristiano-cattolico, l'altro su quello pagano, ma gli obiettivi che si prefiggevano e che davano all'arte erano affatto sovrapponibili. Passati i fermenti storici e quelli della gioventù, lo stesso Carducci poté riconoscerlo in A proposito di alcuni giudizi su A.Manzoni (1873). Si rese anche conto di come il furore giovanile l'avesse portato ad associare clericalismo e spiritualità, Chiesa e idea di Dio. Certo non si autodefinì mai credente nel senso tradizionale, ma ciò accadde perché gli ideali carducciani, in fondo, sono rimasti immutati durante tutta la sua esistenza, e in realtà non riuscì mai del tutto a distinguere la Chiesa dai suoi ministri. Carducci non fu mai contro il divino, contro Dio. Basti pensare alle composizioni giovanili, o, esempio ancor più lampante, alle parole rivolte nel 1889 agli studenti dell'università di Padova: «Il Dio dell'amore e del sacrificio, il Dio della vita e dell'avvenire, il Dio delle genti e dell'umanità è in noi, con noi e per noi».[13]

Produzione poetica

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Non è sempre facile seguire lo sviluppo della poesia di Carducci attraverso le raccolte da lui edite. Il poeta infatti organizzò più volte e in modo differente i suoi componimenti e ne diede una sistemazione definitiva solamente più tardi nell'edizione delle Opere pubblicate per Zanichelli fra il 1889 e il 1909. Qui di seguito si fornisce l'elenco delle opere poetiche pubblicate in volume, poi risistemate nei 20 volumi delle Opere. I volumi non corrispondono però all'ordine cronologico con il quale il poeta aveva pubblicato le prime raccolte, ma fanno riferimento più che altro a distinzioni di generi e pertanto troviamo poesie di uno stesso periodo in raccolte diverse. Le raccolte seguono questo ordine:

  • Juvenilia in sei libri (1850-1860)
  • Levia Gravia in due libri (1861-1871)
  • Inno a Satana (1863)
  • Giambi ed Epodi in due libri (1867-1879)
  • Intermezzo (1874-1887)
  • Rime Nuove in nove libri (1861-1887)
  • Odi barbare in due libri (1873-1889)
  • Rime e Ritmi (1889- 1898)
  • Della Canzone di Legnano, parte I (Il Parlamento) (1879)

Juvenilia

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La prima raccolta di liriche che lo stesso Carducci raccolse e divise, dal titolo significativo Juvenilia (1850-1860), cioé "cose giovanili", è composta da sei libri. Ha indubbiamente il carattere di un recupero della tradizione classica proprio del gruppo degli Amici pedanti che si era costituito in quel periodo con il proposito di combattere i romantici fiorentini. Nei versi della raccolta si coglie subito l'imitazione dei classici antichi, dello stilnovo, di Dante e di Petrarca e, tra i moderni, soprattutto quella di Alfieri, Monti, Foscolo e Leopardi. Si intravede però già lo spirito carducciano, il suo amore per la bellezza dello stile, la purezza dei sentimenti e la dignità della patria, oltre che la capacità di apprezzare tutto ciò che è genuino, quindi anche la parlata popolare.[14]

In seguito a questa prima esperienza Carducci, che nel frattempo aveva allargato i suoi orizzonti culturali con le letture di Hugo, Barbier, Shelley, Heine e Von Platen, assorbe le esperienze della poesia romantica europea e le ideologie di tutti quei movimenti democratici nati dalla rivoluzione francese diventando acceso repubblicano e mazziniano. Nasceranno in questo periodo di grande fervore ideologico Giambi ed epodi che seguono il noto Inno a Satana e si intrecciano con le poesie di Levia Gravia.

Levia Gravia

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Nella seconda raccolta, Levia Gravia (1861-1871), che accosta nel titolo due plurali senza congiunzioni come era nell'uso classico, vengono raccolte poesie di poca originalità, di imitazione e spesso scritte per particolari occasioni secondo l'uso della retorica. In molte di queste poesie si avverte la delusione di chi ha visto il compiersi dell'unità d'Italia. Tra le poesie maggiormente riuscite vi è Congedo, dove si vive lo stato d'animo nostalgico di chi ha visto la giovinezza tramontare, mentre importante dal punto di vista storico è Per il trasporto delle reliquie di U. Foscolo in S. Croce e politicamente significativo il canto Dopo Aspromonte, dove viene celebrato un Garibaldi ribelle e fiero.

Giambi ed epodi

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Giambi ed epodi, edizione del 1921

La raccolta intitolata Giambi ed epodi (1867-1879) viene citata dalla critica come il libro delle polemiche. In essa, pur non essendoci ancora la vera poesia carducciana, si coglie tutta la passione del poeta e vi sono tutti, anche se non ancora affinati, i temi della sua poesia. Si avverte nel titolo il desiderio di riproporre l'antica poesia polemico-satirica, come quella greca di Archiloco e quella latina di Orazio che nel suo Libro di epodi si ispira al poeta-soldato. In Giambi ed epodi vi è l'esaltazione dei grandi ideali di libertà e giustizia, il disprezzo per i compromessi dell'Italia unificata, la polemica contro il papato e contro molti aspetti di costume della vita italiana.

Rime nuove

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Nella raccolta Rime nuove (1861-1887), che è preceduta da un Intermezzo, si colgono gli echi e i motivi di Hugo, von Platen, Goethe, Heine, Baudelaire e Poe. In essa i contenuti e le forme derivano in gran parte dai precedenti scritti ma maggiormente approfonditi e maturi. Tra i temi che emergono nelle Rime nuove un posto rilevante è assunto dal culto del passato e delle memorie storiche dove il sogno della realizzazione di una società egualitaria e liberale si avverte soprattutto attraverso l'esaltazione dell'età dei comuni che vengono presi come esempio di sanità morale e di vita civile. Un altro esempio preso dal Carducci di espansione democratica è la rivoluzione francese che viene rievocata nei dodici sonetti del Ça ira. Accanto al sogno, sul piano storico, di un popolo libero e primitivo, corrisponde sul piano sentimentale quello di una infanzia libera e ribelle che si riversa sul paesaggio maremmano, come nel caso del sonetto Traversando la Maremma toscana, uno forse tra i più belli e noti del poeta. Anche Pianto antico è molto significativo.

Odi barbare

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Odi barbare è una raccolta di cinquanta liriche scritte tra il 1873 e il 1889. Rappresenta il tentativo da parte del Carducci di riprodurre la metrica quantitativa dei Greci e dei Latini con quella accentuativa italiana. I due sistemi sono decisamente diversi, ma già altri poeti prima di lui si erano cimentati nell'impresa, dal Quattrocento in poi, su tutti Leon Battista Alberti, Gabriello Chiabrera e Giovanni Fantoni, tutti autori che il poeta aveva studiato attentamente. Carducci pertanto chiama le sue liriche barbare perché tali sarebbero sembrate non solo a un greco o a un latino, ma anche a molti italiani.

Nella raccolta non si trovano quindi forme metriche tipiche della tradizione italiana, come sonetti, canzoni e canzonette. Piuttosto, il poeta ricorre a metri classici come la strofe saffica e alcaica o il distico elegiaco. Questa scelta ricercata e colta distingue Carducci dai poeti suoi contemporanei, cioè sia da quanti erano rimasti legati alle forme tradizionali, con risultati banali, sia da chi, come gli scapigliati, cercava una nuova poesia influenzata dalle poetiche del naturalismo e del positivismo. Allo stesso tempo, vuole però anche sollecitare il pubblico a non adagiarsi sulle forme consuete, sensibilizzando verso una poesia più raffinata. Lo stile carducciano ebbe grande influenza nella cultura italiana: diffuse infatti un gusto per la classicità preziosa che si ritrova, per esempio, in certe forme del liberty italiano e in alcuni componimenti di D'Annunzio.[15]

Predomina nelle Odi barbare il tema storico e quello paesaggistico con accenti più intimi, come nella poesia Alla stazione in una mattina d'autunno. E ancora una volta i temi fondamentali della poesia carducciana sono gli affetti familiari, l'infanzia, la natura, la storia, la morte accettata con virile tristezza come nella poesia Nevicata.

Rime e ritmi

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Nella raccolta Rime e ritmi (1889-1898), formata da 29 poesie, le composizioni in metrica tradizionale si affiancano a quelle in metrica barbara, come sottolinea lo stesso titolo; in esse vengono ricapitolati i motivi già presenti nelle precedenti opere, non senza delle interessanti novità. Se le odi storiche e celebrative, da Piemonte a Cadore, un tempo famose, non incontrano più il gusto dei lettori moderni, alcune altre liriche godono oggi di una notevole fortuna, mostrando un Carducci più intimo e sensibile ai cambiamenti di gusto che segnano la fine dell'Ottocento. Molto apprezzate, in particolare, sono le liriche che vanno sotto il nome di Idillii alpini, ossia L'ostessa di Gaby, Esequie della guida E. R., In riva al Lys, Sant'Abbondio e l'Elegia del monte Spluga, alle quali va aggiunto l'incantevole Mezzogiorno alpino. Presso una Certosa è invece una sorta di testamento ideale, nel quale, di fronte alla morte, Carducci riafferma la sua fede nei valori della poesia. Significative sono anche le tristi elegie La moglie del gigante e Jaufré Rudel (Jaufré Rudel).

Della canzone di Legnano

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Fa parte a sé Il Parlamento, frammento de La canzone di Legnano che è senza dubbio uno dei capolavori del Carducci e dove si trova l'ispirazione maggiore delle maggiori raccolte. È la prima parte di quello che doveva essere un lungo componimento patriottico; fu iniziata nel 1876 e completata nel 1879, anno in cui fu anche pubblicata per la prima volta. Le altre due parti, dedicate rispettivamente alla battaglia di Legnano e alla fuga di Barbarossa, furono solo abbozzate e ne rimane un frammento risalente al 1900. Carduci da qui voce alle sue idee democratice e socialiste e il proprio spirito libertario, che vengono riversati su questo episodio della storia medievale.

Produzione storico-letteraria

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Carducci svolse un'intensa attività di docente, critico e storico della letteratura. Scrisse vari saggi critici, tra cui Della varia fortuna di Dante (1866-1867), Dello svolgimento della letteratura nazionale (1868-1871), Storia del «Giorno» di Giuseppe Parini (1892), Dello svolgimento dell'ode in Italia (1902). Accanto a questi, si devono ricordare anche le edizioni critiche di classici come il Canzoniere di Petrarca (1899), le Odi di Parini (1858), le Stanze di Poliziano (1863). In tutte queste opere traspare l'atteggiamento antistoricistico di Carducci, che si collocava in una posizione esplicitamente contrapposta a quella di De Sanctis. L'inquadramento storico, nei suoi scritti, si limita a considerazioni sulle scelte stilistiche e retoriche adottate dai diversi autori.[16] La critica carducciana guarda infatti principalmente al testo poetico e al modo in cui i poeti costruiscono le loro opere.[17]

Il poeta-professore scrisse anche opere di polemica, intervenendo non solo su temi letterari, ma anche politici e ideologici, con una prosa che mescola ironia, invettiva e ricordi di episodi autobiografici. Gli scritti di questo tipo, pubblicati su varie riviste, furono infine raccolti nel volume Confessioni e battaglie (1884). Da non dimenticare poi il ricco epistolario carducciano, nel quale spiccano le lettere d'amore con Carolina Cristofori Piva.[17]

  1. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 775.
  2. 2,0 2,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 77.
  3. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2001, p. 777.
  4. Benedetto Croce, Giosue Carducci, Bari, Laterza, 1946, pp. 46-50.
  5. Francesco Flamini, L'anima e l'arte di Giosue Carducci, Livorno, Giusti, 1921, pp. 16-17.
  6. Alfredo Galletti, L'opera di Giosue Carducci. Il poeta, il critico, il maestro, I, Bologna, Zanichelli, 1929, p. 151.
  7. Per il rapporto di Carducci con la letteratura francese: G. Maugain, Giosuè Carducci et la France, Paris, Champion, 1914.
  8. Alfredo Galletti, L'opera di Giosue Carducci. Il poeta, il critico, il maestro, I, Bologna, Zanichelli, 1929, p. 152.
  9. G. Bertoni, La lingua poetica di Giosue Carducci, pp. 98-100.
  10. Giuseppe Basilone, Guida allo studio dell'opera letteraria di Giosue Carducci, Napoli, Federico & Ardia, 1953, pp. 20-24.
  11. Alfredo Galletti, L'opera di Giosue Carducci. Il poeta, il critico, il maestro, I, Bologna, Zanichelli, 1929, pp. 85-97.
  12. Alfredo Galletti, L'opera di Giosue Carducci. Il poeta, il critico, il maestro, I, Bologna, Zanichelli, 1929, pp. 85-86.
  13. «Confessioni e battaglie», in Opere, XIII, serie II, p. 339.
  14. G. Bertoni, La lingua poetica di Giosue Carducci, in Carducci. Discorsi nel centenario della nascita, Bologna, Zanichelli, 1935, pp. 91-95.
  15. Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. III. La letteratura della Nazione, Torino, Einaudi, 2009, p. 71.
  16. Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. III. La letteratura della Nazione, Torino, Einaudi, 2009, p. 67.
  17. 17,0 17,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 783.

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