Filosofia politica

ramo della filosofia

Filosofia politica o teoria politica è lo studio dei concetti, dei fondamenti e dei modelli dell'attività politica. Essa può occuparsi della costruzione di teorie normative della società, della riflessione sui significati dell'agire politico, o del rapporto tra politica e altri ambiti della vita.

Manoscritto contenente il Libro IV della Politica di Aristotele

Questa disciplina si occupa, soprattutto, della politica intesa come l'insieme di mezzi che permettono di ottenere gli effetti voluti: così si esprimeva Aristotele, il quale, nel suo trattato Politica, oltre a definire le funzioni dello Stato e le sue forme di governo, formula ipotesi per realizzare il buon governo della città.

Uno dei problemi fondamentali della filosofia politica è il rapporto tra l'agire politico e l'agire morale. Secondo alcuni l'azione umana riconosciuta moralmente giusta non corrisponde necessariamente a un'azione politicamente valida e viceversa. A questa posizione tuttavia si oppone l'oggettività della posizione platonica: poiché la politica è l'applicazione del bene comune al fine di rimuovere tutti gli ostacoli che si frappongono tra l'individuo e la sua completa realizzazione, allora non è possibile pensare a una politica giusta che non faccia il bene, e qualsiasi altro intendimento è una machiavellica realpolitik che ha come fine il dominio e non il bene.

La filosofia politica nel pensiero antico

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Mentre la pratica politica nella polis greca era all'avanguardia, rispetto ai dispotismi orientali, «nella dottrina greca dello Stato non incontriamo riflessioni sul fondamento della legittimità delle deliberazioni adottate mediante scrutinio di voti»[1]. La storia del pensiero politico, secondo Giovanni Sartori, nasce intorno a elaborazioni filosofiche più generali, ma esse non si sarebbero applicate alle modalità di funzionamento della democrazia, perché va notato come «il principio di maggioranza fosse ignoto ai greci»[2].

Platone

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  Lo stesso argomento in dettaglio: La Repubblica (dialogo).
 
Resti archeologici dell'Accademia di Platone

Tutta la filosofia di Platone è legata alla riflessione sulla politica. A questo proposito è particolarmente rilevante la trattazione che ne fa nel dialogo La Repubblica.

Qui Platone profila uno Stato ideale, una città utopica dove vige la giustizia perfetta. Platone modella questa città non solo per studiare la migliore città immaginabile, ma anche per scoprire come gli individui dovrebbero vivere al meglio. La città ideale, secondo Platone dovrebbe avere tre classi sociali: gente (dall'anima) aurea (governanti), gente (dall'anima) argentea (guerrieri) e gente (dall'anima) bronzea (lavoratori).

  • classe dei lavoratori (popolo, caratteristica la temperanza (sophrosúnê); La parte dell'anima: concupiscibile)
  • classe dei guardiani (phylakes o guerrieri, caratteristica il coraggio (andreia); parte dell'anima: irascibile)
  • classe governativa (filosofi sovrani, caratteristica saggezza (sophía); parte dell'anima: razionale);

Quest'ultima classe deve essere al potere, in quanto classe di innata sensibilità, di inesauribile curiosità intellettuale; i filosofi vogliono capire e non solo constatare, ma anche far funzionare la convivenza.

Plutarco

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Il filosofo greco Plutarco
  Lo stesso argomento in dettaglio: Vite parallele.

Plutarco, scrittore e filosofo greco, studiò ad Atene e fu fortemente influenzato dalla filosofia di Platone e dall'idea del filosofo come politico.

Le sue Vite parallele, pur essendo un'opera biografica, influenzarono la cultura (soprattutto la cultura dell'élite sociale) per lungo tempo. Si tratta di una serie di biografie di uomini celebri, giustapposte a coppie (una personalità greca e una romana) allo scopo di profilare vizi o virtù morali comuni a entrambi.

Sono pervenute ventitré coppie di biografie, oltre a quattro biografie spaiate.

La filosofia politica nel pensiero della modernità

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Niccolò Machiavelli

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Il principe.

Niccolò Machiavelli in quanto conoscitore dei misfatti dei politici - fu segretario di Stato - posto davanti alla scelta drammatica se tenere tutto nascosto o diventare un inutile eroe rivelando cosa sapeva - scelse di insegnare ai regnanti che avrebbero dovuto separare la politica (quindi l'agire attraverso il potere) dalla morale (quindi l'agire secondo principi e valori riconosciuti giusti dalla comunità). Secondo tale artificio strategico, per Machiavelli la politica era a-morale (cioè priva di morale ma non immorale). Alcuni - rinunciando alla evidenza della propria ragione che viceversa, deve "presuntuosamente" porsi al di sopra degli insegnamenti ricevuti: da qualsiasi autorità arrivino - sostennero che con lui la politica diventa una scienza vera e propria, che non segue più la morale religiosa, ma ne ha una propria. Nella sua opera più nota, Il Principe, decide di insegnare a chi governa, che egli non deve seguire modelli assoluti per legiferare (positivismo giuridico), ma deve fare tutto ciò che è possibile perché i sudditi vivano bene, anche mentire o uccidere. L'uomo virtuoso per Machiavelli è - paradossalmente - colui che riesce a trasformare ogni danno in una risorsa. Proprio da questo deriva la famosa massima "il fine giustifica i mezzi".

 
Lorenzo Bartolini, Statua di Niccolò Machiavelli sulla facciata esterna degli Uffizi di Firenze

Historia magistra vitae (La Storia maestra di vita). Ogni situazione particolare può essere analizzata e catalogata in base a caratteri generali. Per ogni problema è possibile quindi risalire a una soluzione adatta in tutti gli altri casi in circostanze simili, e, rispettando questi criteri, funzionerà sempre. Anche la Fortuna (la sorte) gioca un ruolo importante. È dovere del principe prevenire i colpi della sorte pur non conoscendola. È celebre la metafora del fiume soggetto a piene stagionali. Di certo il principe non può sapere se e quando inonderà le terre vicine, né i danni che potrebbe causare, ma il probabile pericolo può essere evitato costruendo degli argini resistenti.

Thomas Hobbes

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Il Leviatano, opera di filosofia politica di Thomas Hobbes, in un'edizione del 1651
  Lo stesso argomento in dettaglio: Leviatano (Hobbes).

Per Hobbes il potere politico doveva essere concentrato nelle mani di un sovrano assoluto o di un gruppo di uomini, questo perché secondo lui nello stato originario degli uomini (stato di natura) si è perennemente in guerra (bellum omnium contra omnes) e non ci si può dedicare ad altre attività.

John Locke

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John Locke invece è contrario al potere assoluto. Ciò deriva quindi da un diverso modo di concepire l'essere umano. Secondo molti, John Locke è stato (inconsapevolmente) l'architetto della moderna concezione di democrazia liberale (fondata cioè sulla priorità della libertà e dei diritti naturali). Le sue idee, espresse nella sua maggiore opera Secondo trattato sul governo civile, hanno esercitato grande influenza sulla formazione della filosofia politica dei padri fondatori delle repubbliche liberali statunitense e francese. Sono chiaramente di derivazione lockiana le seguenti frasi tratte dalla Dichiarazione di Indipendenza e dalla Costituzione degli Stati Uniti d'America:

«...tutti gli uomini sono creati uguali[3]»

«...la vita, la libertà, la ricerca della felicità... noi riteniamo queste verità evidenti in se stesse.»

Le tesi di Locke si oppongono quasi radicalmente all'impianto filosofico hobbesiano, nonostante alcuni punti di convergenza.

 
Il filosofo John Locke in un ritratto di Herman Verelst

Intanto, Locke distingue lo stato di natura (o stato pre-politico) dallo stato di guerra: quest'ultimo infatti, a differenza del primo, può manifestarsi anche in società già pienamente strutturate. Nello stato pre-politico (che rimane sempre una costruzione filosofica più che un vero e proprio stadio antropologico) gli uomini vivevano senza un corpo di leggi definito, e vivevano in pace, tranquillamente, preoccupandosi esclusivamente della propria sussistenza e del proprio benessere. Così come ipotizza Hobbes, anche nella costruzione lockiana l'uomo nasce libero e uguale agli altri, ma la grande novità è che non possiede più quel connotato, quasi infernale, di homo homini lupus che gli era stato attribuito dal padre del contrattualismo.

Ha certamente istinti egoistici, ma prova anche compassione e altruismo per il prossimo (sebbene rimangano sentimenti privi di vera e propria moralità). Non ci sono leggi che lo governano, con l'eccezione della legge di natura: «Nessuno deve recar danno agli altri nella vita, nella salute o nei possessi», a meno che non sia strettamente necessario alla propria sopravvivenza (e proprio per questo motivo Locke formalizza anche un legittimo diritto all'autodifesa). Tuttavia, sebbene gli uomini vivano pacificamente, è possibile che certi uomini trasgrediscano la legge di natura (la pace non è garantita, così come avviene in Hobbes), ed è qui che nasce la legge civile, ovvero il contratto secondo il quale i diritti individuali vengono garantiti da un'autorità pubblicamente accettata («rule of law», o Stato di diritto). Infatti, nello stato di natura, ogni uomo è giudice di sé stesso: la giustizia è dunque soggettiva, il che e la mano, e così via.

Inoltre, nello stato di natura, non tutti possono realizzare la giustizia, e c'è il rischio che chi viene punito si vendichi perché ritiene di aver subito un'ingiustizia: manca un giudice neutrale e obiettivo. Questo concetto è particolarmente importante sulle questioni riguardanti la proprietà, che Locke considera un diritto naturale inviolabile, al pari della libertà. Ma chi decide dove comincia la proprietà? In che momento un uomo può dire "questo è mio"? Nell'impianto filosofico lockiano si distinguono beni naturali e beni artificiali: i primi sono forniti direttamente dalla natura (come la frutta o l'acqua di un fiume), i secondi scaturiscono dall'applicazione del lavoro da parte dell'uomo. Dunque un bene naturale (come una mela) può diventare artificiale dal momento che viene colta, attraverso quindi l'impiego di lavoro umano. In quel preciso istante in cui l'uomo coglie la mela (il «punto di prima applicazione») nasce la proprietà. Con questi presupposti filosofici, Locke mette in relazione (per la prima volta nella storia dell'uomo) lavoro umano e valore dei beni, commisurando quest'ultimo in base alla quantità del primo - tesi che, molto tempo dopo, verrà ripresa e sviluppata dallo stesso Marx nelle sue opere, in chiave del tutto diversa, ovviamente.

Per quanto riguarda i limiti del potere sovrano, Locke ritiene, al contrario di Hobbes, che il sovrano stesso sia parte integrante del contratto e quindi non può esser considerato al di sopra della legge; non può violare i diritti naturali di alcun individuo e non si può porre in una condizione assolutista: se ciò avvenisse il contratto decadrebbe e la società piomberebbe di nuovo nello stato di guerra, in cui ognuno è tenuto a giudicare e farsi giustizia da sé. Lo stato di guerra lockiano è, per molti versi, simile allo stato di natura hobbesiano. Inoltre, vi sono una serie di diritti che l'uomo possiede dalla nascita, indipendentemente dalla società, e di conseguenza non possono esser tolti o essere oggetto di limitazione (diritto alla libertà, uguaglianza, proprietà).

Montesquieu

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Filosofo per eccellenza della moderazione, Montesquieu è il padre del principio della divisione dei poteri e di quello dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura. Il punto di partenza della sua riflessione, contenuta essenzialmente nell'opera Lo spirito delle leggi (1748), è la definizione del diritto naturale: per Montesquieu le leggi naturali sono rapporti necessari tra una serie di elementi costanti; il diritto naturale è dunque invariabile ed eterno proprio perché riguarda caratteristiche proprie dell'essere umano. Le leggi positive, viceversa, sono connotate come rapporti costanti tra elementi variabili e queste variabili sono dette variabili empirico - naturaliste. Quando elementi variabili si combinano danno dunque luogo alle leggi positive, le quali, proprio per questo motivo, sono prettamente mutevoli, a differenza delle leggi naturali. Il fattore variabile più importante nella creazione delle leggi positive è la forma di governo che contraddistingue un popolo; pertanto per conoscere le leggi positive proprie di un popolo è necessaria una catalogazione delle forme di governo. Montesquieu individua tre diverse forme di governo: monarchia, repubblica e tirannide.

Riprendendo l'impianto classificatorio di matrice platonico - aristotelica, Montesquieu distingue le specie di governo fisiologiche da quelle patologiche; tuttavia, a differenza di Platone e di Aristotele, individua la scriminante nella legge. Utilizzando il metodo comparativo, Montesquieu arriva ad affermare che una forma di governo non è patologica solo se il potere è sottoposto alla legge e a tal fine è necessaria non solo una separazione orizzontale dei poteri ma anche il loro reciproco controbilanciamento. In particolare secondo Montesquieu proprio il potere giurisdizionale, da lui definito come funzione delle cose che dipendono dal diritto civile, è quello che più tende a soverchiare il continuum legislativo-esecutivo. Per tale ragione Montesquieu, guardando al modello della giuria popolare inglese, arriva ad affermare che il giudice deve solo applicare e non interpretare la legge: deve essere insomma la bocca della legge. Oltre alla supremazia della legge e alla divisione dei poteri, un terzo elemento caratterizza una forma di governo fisiologica: la garanzia della libertà. A tale scopo è necessario che le leggi siano in generale chiare, conoscibili e comprensibili al popolo e in particolare quelle penali devono rispettare i principi di legalità, umanità e proporzionalità della pena.

Purtroppo quella che è stata il frutto di una dura lotta, pagata anche con il sangue, e che ha consentito la nascita dello Stato moderno, basato sulla legge, sulla tolleranza e sulla dialettica democratica, in molti paesi oggi rischia di diventare un retaggio del passato, nell'indifferenza di istituzioni malate. Il compito degli studiosi della politica è quello di trovare un rimedio a queste degenerazioni, senza ricadere nella situazione di disordine e di barbarie ipotizzato da Hobbes come connaturato alla natura ferina dell'uomo.

Jean-Jacques Rousseau

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Il contratto sociale.

Nel XVIII secolo Rousseau, attraverso l'idea di contratto sociale, afferma la necessità di una struttura politica democratica[4] volta a tutelare al meglio i diritti dei cittadini, realizzando la volontà generale.

La filosofia politica nel pensiero illuminista e idealista

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Immanuel Kant

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Per la pace perpetua.

Immanuel Kant analizza l'uomo e in lui trova una tendenza egoistica, ovverosia una insocievole socievolezza: gli uomini tendono a unirsi in società, ma con una riluttanza a farlo davvero. Essi si associano per la propria sicurezza e si dissociano per i propri interessi. Ma è proprio questa conflittualità a favorire il progresso e le capacità del genere umano, perché gli uomini lottano per primeggiare sugli altri, come gli alberi: si costringono reciprocamente a cercare l'uno e l'altro al di sopra di sé, e perciò crescono belli dritti, mentre gli altri, che, in libertà e isolati fra loro, mettono rami a piacere, crescono storpi, storti e tortuosi. Secondo Kant, il diritto consiste nella limitazione della libertà di ciascuno alla condizione che essa si accordi con la libertà di ogni altro. La libertà di ognuno coesiste con la libertà degli altri. Ovviamente l'uomo kantiano non può non avere bisogno di un padrone, ma il padrone non è un altro uomo, bensì il diritto stesso. Kant conosce le tesi di John Locke sul liberalismo e anch'egli afferma che lo Stato mira a garantire la libertà di ogni persona contro chiunque altro. Lo "Stato repubblicano" che delinea si basa su "Tre principi della ragione":

  • la Libertà:
  • l'Uguaglianza di tutti di fronte alla legge;
  • l'Indipendenza dell'individuo (in quanto cittadino).

Questa visione dello Stato va in conflitto con un qualsiasi dispotismo presente, anche paternalistico. Secondo Kant infatti, «un governo paternalistico è il peggiore dispotismo che si possa immaginare», dato che costringe i sudditi ad attendere che il capo dello Stato giudichi solo mediante la sua bontà. C'è solo una soluzione a questo problema: essere liberi per poter esercitare le proprie forze nella libertà.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel

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Karl Marx

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Karl Marx.

Per Karl Marx il governo è, come dice nel Manifesto del Partito comunista, il comitato d'affari della borghesia di quella nazione. È quindi necessaria una frattura rivoluzionaria per passare al comunismo. Resta comunque il concetto di Stato, in un primo momento, la cosiddetta 'dittatura del proletariato'. In realtà il punto di arrivo è in comune con la visione di Lenin: lo Stato borghese si abbatte e non si cambia. L'assenza di Stato è il vero comunismo del futuro.

La filosofia politica nel pensiero contemporaneo

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Karl Popper

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  Lo stesso argomento in dettaglio: La società aperta e i suoi nemici.

Parallelamente al suo pensiero epistemologico Karl Popper sviluppa un'innovativa dottrina politica. Popper critica infatti il pensiero politico sia di Hegel sia di Marx imputando loro l'errore di pretendere di conoscere il corso del futuro della storia, svuotando così inevitabilmente il presente di responsabilità morale. La loro diviene dunque una visione utopica che nasconde una componente di violenza e di prevaricazione che si concretizza nella nascita di una società totalitaria, da lui definita, con il termine coniato da Henri Bergson di società chiusa. All'utopia Popper contrappone l'ipotesi di una società aperta, retta da istituzioni democratiche autocorreggibili, fondata sulla libertà, sul dialogo e sulla tolleranza

John Rawls

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Una teoria della giustizia e Liberalismo politico.

La teoria neocontrattualistica di John Rawls pone l'accento sul fatto che per decidere su quali principi la società debba regolarsi, sia in qualche modo necessario un accordo, condividendo non un principio ma una procedura (il cosiddetto velo di ignoranza), che permette di trovare un accordo che, nella teoria della giustizia, è un patto sui principi di giustizia che devono regolare la nostra società. In particolare i principi sono due. Il primo principio riguarda le istituzioni politiche ed è il principio di massimizzazione della libertà tanto caro a John Stuart Mill. Vi è poi il principio di differenza. Questo principio riguarda l'idea per la quale ciascun vantaggio o bene sociale primario di cittadinanza deve essere distribuito egualmente a meno che una qualche ineguaglianza nella sua distribuzione non vada a vantaggio di chi è più svantaggiato. John Rawls realizza così una teoria della giustizia basata sull'equità, fondendo insieme tra loro i due grandi termini del vocabolario politico della tradizione democratica: libertà e uguaglianza.

I Contrattualisti

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Contrattualisti.

Nell'epoca contemporanea la filosofia politica, oltre a occuparsi secondo schemi tradizionali dello studio dello Stato (inteso come centro del potere politico), analizza e studia tutto ciò che riguarda il pubblico e in questo senso anche problemi di natura sociale ed economica. In particolare Salvatore Veca, in un'epoca caratterizzata dalla crisi della statualità, è fautore, specificatamente nell'opera La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull'idea di giustizia, di una teoria della giustizia globale, ovvero un ripensamento cosmopolitico e sovranazionale delle logiche politiche moderne (basate su legalità, costrizione e monopolio della violenza).

 
Salvatore Veca al Festival della Mente 2011

Contrapposta a questa visione contrattualista si erge invece la prospettiva di quanti, come Robert Nozick, Murray Newton Rothbard e Hans-Hermann Hoppe propendono per il superamento di ogni struttura di potere centralizzato ed egemone, e propongono - all'interno di un quadro concettuale libertario e liberale - un ordine policentrico e concorrenziale di agenzie protettive in libera concorrenza tra loro. D'importanza cruciale a proposito è il testo di riferimento della teoria liberale e anarco-individualista di Murray Newton Rothbard "L'Etica della Libertà".

Riviste scientifiche italiane di settore

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  1. ^ Otto von Gierke, Über die Geschichte des Majoritätsprinzips, in Essays in Legal History, London, 1913, p. 317.
  2. ^ Giovanni Sartori, voce Democrazia, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, 1992, p. 146, il quale aggiunge: «si capisce che nell’ekklesia vinceva, di fatto, il voto o l’acclamazione dei più; ma quel fatto era un espediente pratico lasciato passare senza un riconoscimento ufficiale, senza una dottrina di sostegno».
  3. ^ Non è esclusa una certa influenza di Filippo Mazzei, come spiegato qui.
  4. ^ David M. Estlund, Democratic Authority: A Philosophical Framework, ISBN 0691124175, 978-0-691-12417-9, 9781400831548, 1400831547, Princeton University Press 2007.

Bibliografia

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  • Alberto Andreatta - Artemio Enzo Baldini - Carlo Dolcini - Gianfranco Pasquino (a cura di). Il pensiero politico. Idee, teorie, dottrine, 4 voll. e Antologia, Torino:,UTET 1999.
  • Sabino Cassese (a cura di), La recomposition de l’État en Europe, in collaborazione con V. Wright, Parigi, La Découverte, 1996, pp. 1-239.
  • Roberto Gatti. Filosofia politica. Gli autori, i concetti, i problemi, Brescia, La Scuola, 2011.
  • Gerhard Oestreich, Filosofia e costituzione dello Stato moderno, Napoli, Bibliopolis, 1989.
  • Francesco Giacomantonio (a cura di). La filosofia politica nell'età globale (1970-2010), Milano, Mimesis, 2013.
  • Virginio Marzocchi. Filosofia politica. Storia, concetti, contesti, Bari, Laterza, 2011.
  • Stefano Petrucciani. Modelli di filosofia politica, Torino, Einaudi, 2003.
  • Leo Strauss, Joseph Cropsey. Storia della filosofia politica, Vol. 1: Da Tucidide a Marsilio da Padova (1993); Vol. 2: Da Machiavelli a Kant (1995); Vol. 3: Da Blackstone a Heidegger (2000) Genova, Il Nuovo Melangolo.

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