Toni Morrison

scrittrice statunitense
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Toni Morrison, pseudonimo di Chloe Anthony Wofford (1931 – 2019), scrittrice statunitense afroamericana.

Toni Morrison nel 2008
Medaglia del Premio Nobel
Medaglia del Premio Nobel
Per la letteratura (1993)

Citazioni di Toni Morrison

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  • Dal punto di vista scientifico, esiste solo la razza umana. Il razzismo è un costrutto, un costrutto sociale.[1]
Basta, io non sono una scrittrice nera, Corriere della Sera, 19 dicembre 2008
  • Adoro l'Italia perché non è pretenziosa come la Francia e ogni volta che ci vado sono accolta da folle enormi e calorose. Amo la Frassinelli [Casa editrice] e Carla Tanzi, l'editor cui ho spedito il manoscritto per prima perché tenevo molto al suo parere. Che è stato positivo.
  • [Il Nobel] È bizzarro che l'abbia vinto Dario Fo e non Edward Albee, Arthur Miller o Tennessee Williams.
  • Gli artisti neri che ho incontrato in Francia, Turchia e Italia sono molto più politicizzati dei nostri. Purtroppo la nostra cultura nera è stata scippata, diventando un prodotto ad uso e consumo dei ragazzi bianchi dei sobborghi. Nessun nero comprerebbe quella spazzatura.
  • La rivolta [in Virginia del 1676] di Bacon spinse le autorità a modificare la legge, per consentire ai bianchi di uccidere qualsiasi nero senza motivo. Ciò consegnava alla servitù debitoria il potere di vita e di morte sui neri; anche se appartenevano alla stessa classe sociale.
  • Le nere istruite non erano una minaccia per nessuno e così io mi sono trovata in una posizione privilegiata, mentre le mie compagne italiane ed ebree dovevano lottare per non finire chiuse in convento o in un matrimonio combinato.
  • [Jean-Marie Gustave Le Clézio] Nessuno qui ne aveva mai sentito parlare. Ma la colpa è nostra che non traduciamo da altre lingue e siamo insulari.
  • Non ricordo la mia vita prima dei libri. Fu mia sorella Lois, di due anni più vecchia di me, a introdurmi alla lettura, prima delle elementari; a scuola c'erano solo due persone che sapevano leggere: io e la maestra.
  • Se io scrivo di afro-americani, i critici mi definiscono black writer, se John Cheever scrive di bianchi del New England, la discussione s'impronta sulla complessità del racconto. Spero che un giorno la letteratura non sarà più divisa tra nera e bianca. Perché sono abbastanza stufa di essere considerata una sociologa invece di una letterata.
  • Un tempo, se una famiglia nera doveva mandare un figlio al college, sceglieva le femmine perché i maschi rischiavano di essere uccisi non appena avevano successo. Il primo linciaggio cui assistette mio padre fu quello di un uomo d'affari nero della Georgia.

Amatissima

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Il 124 era carico di rancore. Carico del veleno d'una bambina. Le donne lo sapevano, e così anche i bambini. Per anni ognuno aveva cercato a modo suo di sopportare il rancore di quella casa ma, nel 1873, le uniche vittime rimaste erano Sethe e sua figlia Denver. La nonna, Baby Suggs, era morta e i due ragazzi, Howard e Buglar, se ne erano scappati via non appena avevano compiuto tredici anni, non appena al solo guardarsi nello specchio questo si era frantumato (quello era stato il segnale per Buglar), non appena erano apparse sulla torta le due minuscole impronte di una manina (quello era sta– to il segnale per Howard). Nessuno dei due aveva aspettato di vedere altro: l'ennesima pignatta ricolma di ceci fumanti rovesciati sul pavimento, in un mucchietto, le gallette sbriciolate sparpagliate a terra, lungo una linea parallela all'uscio di casa. Né, tantomeno, avevano atteso uno dei soliti periodi di calma: le settimane, i mesi persino, in cui niente veniva a turbare la quiete. No. Erano svaniti entrambi all'improvviso, nel momento stesso in cui la casa si era resa colpevole di ciò che ognuno di loro, personalmente, riteneva l'unico insulto da non potersi sopportare o vedere una seconda volta. Se n'erano andati nel giro di due mesi, nel cuore dell'inverno, abbandonando la nonna, Baby Suggs, la madre, Sethe, e la loro sorellina, Denver, tutte sole nella casa bianca e grigia di Bluestone Road. Questa, allora, non recava un numero civico, poiché la città di Cincinnati non arrivava ancora fin laggiù. In verità, erano solo settant'anni che l'Ohio si era proclamato stato, allorché i due fratelli, prima l'uno e poi l'altro, dopo aver infilato l'ovatta della trapunta nel cappello a mo' di imbottitura e aver arraffato in fretta e furia le scarpe, si erano allontanati furtivamente da quella casa che nutriva un vivo rancore nei loro confronti.

Citazioni

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  • «Un uomo non è altro che un uomo», diceva Baby Suggs. «E un figlio, allora? Be', un figlio sì che è qualcuno.» (p. 33)
  • Ma al suo cervello il futuro non interessava. Gravato del passato, affamato d'altro ancora, già non gli lasciava spazio per immaginare, tanto meno per fare progetti per il domani. (p. 102)
  • Sethe continuava a strofinare, a strofinare, premendo sul tessuto della sua tuta da lavoro e sulle curve spigolose del suo ginocchio. Sperava che servisse a calmarlo, così come calmava lei. Come quando impastava il pane nella luce incerta della cucina del ristorante. Prima che arrivasse il cuoco, quando stava in uno spazio non più largo di una panca messa per lungo, avendo alle sue spalle e allasua sinistrai recipienti del latte. Lavorare la pasta. Lavorare, lavorare la pasta. Non c'era niente di meglio per cominciare il vero lavoro della giornata: ricac– ciare indietro il passato. (p. 106)
  • Con fare furtivo, Denver stringe tra le dita un lembo della gonna di Amata. Ottima decisione, poiché Amata all'improvviso si tira su.
    «Che cosa c'è?» le chiede Denver.
    «Guarda», le dice, e indica le fessure illuminate dal sole.
    «Che cosa? Io non vedo niente.» Denver segue con lo sguardo il punto indicato dal dito.
    Amata lascia ricadere la mano. «Io sono così.» (p. 180)
  • «Diglielo, Jenny. Prima di venire da me, eri mai stata in un posto migliore del mio?»
    «No, signore», rispose. «Nessun posto.»
    «Ho lasciato che Halle ti comprasse, sì o no?»
    «Sì, signore», disse lei, pensando: Però tu hai il mio ragazzo e io sono a pezzi. Tu lo affitti in giro, così lui continua a pagare per me anche dopo che me ne sono andata al Creatore da un pezzo. (p. 212)
  • «Il tuo amore è troppo grande», disse, pensando, quella troia è lì che mi guarda, è proprio sopra la testa che mi sbircia attraverso il pavimento.
    «Troppo grande?» disse lei, pensando alla Radura, dove gli ordini di Baby Suggs facevano cader giù i ricci dagli ippocastani. «L'amore o c'è o non c'è. L'amore piccolo non è amore per niente.» (Paul D e Sethe: p. 239)
  • «Non ti preoccupare, la sveglio poi io», disse Sethe e pensò, è bello aver tempo di pensare prima, prima di parlare con lei, di farle sapere che so. Fare come diceva Baby Suggs: pensarci su e poi buttare giù tutto — una volta per tutte. Paul D m'aveva convinto che fuori di qua c'era tutto un mondo e che io potevo viverci. Doveva saperlo. E lo sapeva. Qualunque cosa capita fuori dalla porta di casa mia non mi ríguar(la. Il mondo è in questa stanza. Qui c'è tutto quello che esiste e tutto quello di cui c'è bisogno. (p. 265)
  • I bianchi credevano che, qualunque fosse la loro educazione, sotto ogni pelle scura si nascondesse una giungla. Acque vorticose non navigabili, babbuini che si dondolavano gridando, serpenti addormentati, gengive rosse pronte a succhiare il loro sangue dolce di bianchi. In un certo senso, pensò, avevano ragione. Più la gente di colore si sforzava di convincerli di quanto fossero gentili, intelligenti e affettuosi, umani, più si usavano a pretesto per persuadere i bianchi di qualcosa che i negri credevano fosse fuori discussione, e più la giungla dentro si faceva fitta e intricata. Ma non era la giungla che i negri avevano portato con sé in quel posto dall'altro posto (vivibile). Era la giungla che i bianchi avevano piantato loro dentro. E cresceva. E si allargava, si allargava prima, durante e dopo la vita, fino a coinvolgere i bianchi stessi che l'avevano creata. Li rendeva crudeli, stupidi, più di quanto non volessero esserlo, tanto erano spaventati da quella giungla di loro creazione. I babbuíni urlanti vivevano sotto la loro pelle bianca, le gengive rosse erano le loro. (p. 289)
  • «Dimmi una cosa, Stamp.» Paul D aveva gli occhi lucidi. «Dimmi solo questo. Un negro quanto deve sopportare? Dimmi. Quanto?»
    «Tutto quello che può», rispose Stamp Paid. «Tutto quello che può.»
    «Perché? Perché? Perché? Perché? Perché?» (p. 341)
  • Sethe implorava perdono, enumerando, elencando in continuazione le sue ragioni: che per lei Amata era più importante e aveva più significato della sua stessa vita. Che avrebbe fatto cambio con lei in qualsiasi momento. Che avrebbe rinunciato alla propria vita, a ogni ora e ogni minuto, se questo poteva servire a cancellare anche solo una sua lacrima. (p. 349)
  • Come la Dolce Casa, dove il tempo non passava e dove, come le aveva detto sua madre, il male era lì ad aspettare anche Denver. Come avrebbe fatto a riconoscere quei posti? Cosa ancora più importante — assai più importante — là fuori c'erano i bianchi. Da cosa si capivano? Sethe diceva dalla bocca e, a volte, dalle mani. La Nonna Baby diceva che non c'era riparo — sapevano stare in agguato quanto pareva loro, sapevano cambiare idea continuamente e, anche quando pensavano di comportarsi bene, erano sempre lontani mille miglia da quello che facevano i veri esseri umani. (p. 352)
  • Denver alzò gli occhi verso di lei. Allora non lo sapeva, però fu quella parola, «bambina», detta a bassa voce e con tale gentilezza, che inaugurò la sua vita nel mondo in qualità di donna. (p. 359)
  • Più Amata diventava grande e più Sethe diventava piccola, più gli occhi di Amata diventavano luminosi e più quegli occhi che non si abbassavano mai diventavano due fessure assonnate. Sethe non si pettina va più, né si rinfrescava la faccia con l'acqua. Stava seduta sulla sedia leccandosi le labbra, come una bambina in castigo, mentre Amata le divorava la vita, la afferrava, se ne gonfiava, la usava per diventare più alta. [...] Sethe cercava di rimediare in qualche modo alla sega, Amata gliela faceva pagare. [...] Eppure, sapeva che la paura più grande di Sethe era la stessa che Denver aveva avuto all'inizio — che Amata potesse andarsene. [...] Andarsene prima che Sethe riuscisse a farle capire che peggio ancora di quello — molto peggio — era quello di cui era morta Baby Suggs, quello che Ella conosceva, quello che Stamp Paid aveva visto e quello che aveva fatto tremare Paul D. Che un bianco qualunque potesse prendere tutto l'io di una persona per il primo motivo che gli saltava in mente. Non solo poteva sfruttare, uccidere o mutilare una persona, ma anche sporcarla. Sporcarla al punto da dimenticare chi si è e non poterci più pensare. (pp. 362–4)
  • Qualunque cosa Sethe avesse fatto, a Ella non andava giù l'idea che gli errori del passato si impadronissero del presente. [...] «Sufficiente è il male dell'oggi», e nessuno aveva bisogno d'altro. Nessuno aveva bisogno che il male cresciuto sotto forma di un'adulta si sedesse a tavola invidioso. (pp. 371–2)
  • Rimasta sola sotto il portico, Amata sorride. Ma ora la sua mano è vuota. Sethe sta correndo via da lei, sta correndo via e lei sente il vuoto nella mano che prima lei stringeva: sta correndo per raggiungere le facce di quella gente laggiù, si sta unendo a loro e sta lasciandosi dietro Amata. Sola. Di nuovo. Poi vede Denver, anche lei sta correndo. Via da lei, verso quel mucchio di gente laggiù. Formano una collina. Una collina di negri: cadono. E sopra tutti loro, sollevandosi dal suo posto, con una frusta in mano, c'è l'uomo senza pelle che guarda. Guarda lei. (p. 380)
  • Toccami. Toccami dentro e chiamami col mio nome. (Amata a Paul D, ripetutamente)

Non era una storia da tramandare.

Così la dimenticarono. Come si fa con un sogno spiacevole durante un sonno penoso. Ogni tanto, però, quando si svegliano si sente cessare il fruscio di una gonna e le nocche che passano su una guancia nel sonno sembrano appartenere a chi dorme. A volte la fotografia di un amico intimo o di un parente — osservata troppo a lungo — cambia e vi si vede muovere qualcosa di più familiare del volto caro che c'è lì. Possono toccarlo, se vogliono, però non lo fanno, perché sanno che se lo fa cessero le cose non sarebbero più le stesse.

Questa non è una storia da tramandare.

Dietro al 124, vicino al fiume, le sue impronte vanno e vengono, vanno e vengono. Sono così familiari. Se un bambino o anche un adulto vi mettessero i piedi dentro, combacerebbero. Se li togliessero, scomparirebbero di nuovo, come se nessuno avesse mai camminato lì. Ora ogni traccia è scomparsa e ciò che è stato dimenticato non sono solo le impronte, ma anche l'acqua e quello che c'è là sotto. Il resto è il tempo. Non l'alito di chi è dimenticata e inspiegata, ma il vento nei grondoni, o il ghiaccio che in primavera si scioglie troppo in fretta. Solo il tempo. Di sicuro non si sente reclamare a gran voce un bacio.

Amata.

Incipit di alcune opere

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Il dono

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Non avere paura. Il mio racconto non può farti del male malgrado quello che ho fatto e ti prometto di rimanere sdraiata buona buona al buio — magari a piangere o a vedere ancora il sangue ogni tanto — ma non distenderò più braccia e gambe per alzarmi scoprendo i denti. Mi spiego. Puoi pensare al mio racconto come a una confessione, se vuoi, ma piena di curiosità familiari solo nei sogni o quando il profilo di un cane gioca nel vapore dell'acqua che bolle. O quando una bambola di cartocci di mais su una mensola poco dopo è per terra nell'angolo di una stanza e la cattiveria che l'ha fatta finire lì è evidente.

Sst, la conosco quella donna. Viveva con un nugolo di uccelli in Lenox Avenue. Conosco anche il marito. Ha perso la testa per una diciottenne: uno di quegli amori tutti di pancia, da far spavento, che lo ha reso triste e felice al punto da spararle perché quell'emozione durasse in eterno. Quando la donna, Violet, andò al funerale per vedere la ragazza e sfregiarle il volto esanime, venne spinta a terra e cacciata dalla chiesa. Lei allora si mise a correre, in mezzo a tutta quella neve, e quando arrivò a casa, aprì le gabbie, spalancò le finestre e lasciò gli uccelli liberi di morire di freddo o di volare via, compreso il pappagallo che diceva: «Ti amo».

Paradiso

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Sparano prima alla ragazza bianca. Per il resto c'è tempo.[2]

  1. Citato in AA.VV., Il libro della black history, traduzione di Roberto Sorgo, Gribaudo, 2022, p. 12. ISBN 9788858041147
  2. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi e Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia

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  • Toni Morrison, Amatissima, traduzione di Giuseppe Natale, Frassinelli, 1988.
  • Toni Morrison, Il dono, traduzione di S. Fornasiero, Frassinelli, 2009. ISBN 9788888320304
  • Toni Morrison, Jazz, trad. di Franca Cavagnoli, Frassinelli, 1993. ISBN 8876842438

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