Edward Gibbon

storico e scrittore inglese

Edward Gibbon (1737 – 1794), storico britannico.

Edward Gibbon

Citazioni di Edward Gibbon

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  • Io rubai sei settimane per fare una corsa a Napoli, città più popolata di tutte relativamente alla sua grandezza, li cui voluttuosi abitanti sembrano collocati sui confini del paradiso e dell'inferno.[1]

Declino e caduta dell'Impero Romano

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  • Fintanto che l'umanità continuerà ad essere prodiga di elogi più coi suoi distruttori che coi suoi benefattori, la brama di gloria militare sarà sempre il vizio delle personalità più insigni.
  • Quasi tutti i crimini che turbano la pace interna della società sono il prodotto delle restrizioni che delle leggi necessarie ma discriminanti della proprietà hanno imposto agli appetiti del genere umano, limitando soltanto ad alcuni il possesso di quegli oggetti che sono desiderati ardentemente da molti.
  • Di tutte le passioni e di tutti i nostri appetiti, l'amore del potere è quello di natura più imperiosa ed egoistica, poiché l'orgoglio di un solo uomo esige la sottomissione della moltitudine.
  • I prìncipi sospettosi promuovono spesso l'ultimo degli uomini nella vana persuasione che chi dipende soltanto dal favore proverà attaccamento soltanto per il suo benefattore.
  • Il potere può essere conferito dal favore del sovrano ma l'autorità deriva soltanto dalla stima del popolo.
  • A una cena memorabile trenta schiavi servirono a tavola: dieci giovani si appagarono di Teodora. La sua carità era universale. (Declino e caduta dell'Impero romano, p. 457)
  • [Teodora] si augurava un quarto altare sul quale poter libare al dio dell'Amore.[2] (Declino e caduta dell'Impero romano, p. 457)
  • Nel descrivere la caduta e il saccheggio delle grandi città lo storico è condannato a ripetere sempre le medesime sventure: le stesse passioni non possono che produrre gli stessi effetti, e quando è possibile indulgere senza controllo a tali passioni, ben piccola, ahimè, è la differenza tra uomo civile e quello selvaggio. (Declino e caduta dell'Impero romano, p. 492)

Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano

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Volume primo

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Davide Bertolotti
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Nel secondo secolo dell'Era cristiana, l'Impero di Roma comprendeva la parte più bella della Terra, e la porzione più civile del genere umano. Il valore, la disciplina, e l'antica rinomanza difendevano le frontiere di quella vasta monarchia. La gentile, ma potente influenza delle leggi e dei costumi aveva a poco a poco assodata l'unione delle province, i cui pacifici abitatori godevano ed abusavano dei vantaggi che nascono dalle ricchezze e dal lusso. Si conservava ancora, con decente rispetto, l'immagine di una libera costituzione; e l'autorità sovrana apparentemente risedeva nel Senato romano, il quale affidava agl'Imperatori tutta la potenza esecutiva del Governo. Nel felice corso di più d'ottant'anni, la pubblica amministrazione fu regolata dalla virtù e dalla abilità di Nerva, di Traiano, di Adriano, e dei due Antonini. In questo e nei due seguenti capitoli, descriveremo il prospero stato del loro Impero, ed esporremo le più importanti circostanze della sua decadenza e rovina, dopo la morte di Marco Antonino; rivoluzione che sarà rammentata mai sempre, e della quale le nazioni della terra tuttor si risentono. (p. 1)
[Edward Gibbon, Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano, traduzione di Davide Bertolotti, Nicolò Bettoni, 1820-1824.]

Altra traduzione
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Nel secondo secolo dell'era cristiana, Roma sottomesso aveva al suo impero le più belle contrade della terra, e fra i suoi sudditi annoverava le più colte nazioni. Il coraggio, la disciplina, una fama acquistata per lunga serie di vittorie, rendevan sicure le frontiere di questa immensa monarchia. La dolce, ma possente influenza delle leggi e de' costumi, aveva formata l'unione di tutte le province, i di cui abitatori, nel seno della pace, godevano ed abusavano de' vantaggi del lusso, e delle ricchezze. Conservatasi intanto con religioso rispetto l'immagine d'una libera costituzione. Il senato romano possedeva in apparenza la suprema autorità, e gl'imperatori avevano in mano la potenza esecutrice. Per più di novant'anni la pubblica amministrazione venne regolata dai talenti e dalla virtù di Traiano, di Adriano, e de' due Antonini. Noi comincieremo dal descrivere il florido stato dell'impero in quello felice periodo; e passerem di poi a riferir le circostanze le più interessanti, che dopo la morte di Marc'Aurelio accompagnata ne hanno la decadenza, e la rovina: rivoluzione degna d'eterna ricordanza, e che oggi ancora influisce sopra tutte le nazioni del globo.
[Istoria della decadenza e della rovina dell'impero romano dall'originale inglese del sig. Gibbon trasportata in idioma francese dal signore Le Clerc di Septchênes, segretario del gabinetto di S. M. cristianissima.]

Citazioni

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  • [Su Adriano] Il carattere incostante di questo Imperatore, capace a vicenda e dei più bassi e dei più generosi sentimenti, può dare qualche colore al sospetto. Non poteva egli per altro mettere in luce più luminosa la superiorità del suo predecessore, se non se confessandosi in tal modo incapace di difendere quello che Traiano avea conquistato. (p. 10)
  • La vita di Adriano fu quasi un viaggio continuo; e siccome possedeva i diversi talenti di soldato, di politico e di letterato, così contentava la sua curiosità, soddisfacendo al suo dovere. Non curando la differenza delle stagioni e dei climi, andava a piedi e a testa nuda sulle nevi della Caledonia, e sulle cocenti pianure dell'Egitto superiore; nè vi fu provincia dell'Impero che nel corso del regno di lui, non fosse onorata dalla presenza del suo Monarca. Al contrario, Antonino Pio passò la sua vita tranquilla in seno all'Italia; e nel corso di ventitré anni che tenne la pubblica amministrazione, i più lunghi viaggi di questo Principe amabile non si estesero più in là che dal palazzo di Roma al suo ritiro nella villa Lanuvia. (p. 11)
  • Il tenero rispetto di Augusto per una libera costituzione, che avea egli stesso distrutta, non si può spiegare che con un attento esame del carattere di questo scaltrito tiranno. Un sangue freddo, un cuore insensibile, ed un animo codardo gli fecero prendere, all'età di diciannov'anni, la maschera dell'ipocrisia, che mai più non si tolse dal viso. (p. 105)
  • [Su Augusto] La morte di Cesare gli stava sempre dinanzi agli occhi. Aveva, è vero, colmati i suoi aderenti di ricchezze e di onori, ma si ricordava, che gli amici più favoriti del suo zio erano stati nel numero dei congiurati. La fedeltà delle legioni potea difendere la sua autorità contro una ribellione scoperta, ma la loro vigilanza non poteva assicurare la sua persona dal pugnale di un risoluto repubblicano; ed i Romani, che veneravano la memoria di Bruto, avrebbero applaudito a un imitatore di lui. (p. 105)
  • Sapeva Augusto, che gli uomini si lasciano governare dai nomi, nè fu ingannato nell'aspettativa di credere, che il Senato ed il popolo avrebber sopportato la schiavitù, purché fossero rispettosamente assicurati che tuttor godevano dell'antica lor libertà. Un Senato debole, ed un popolo avvilito si riposarono con piacere in questa dolce illusione, finché la mantenne la virtù, o la prudenza dei successori d'Augusto. (p. 107)
  • [Su Adriano] Sotto il suo regno [...] l'Impero fiorì in pace ed in prosperità. Egli incoraggiò le arti, riformò le leggi, assicurò la disciplina militare, e visitò tutte le province in persona. Il suo ingegno vasto ed attivo sapeva egualmente levarsi alle più estese mire, e discendere alle più minute particolarità del governo civile; ma le passioni sue dominanti erano la curiosità e la vanità. Secondo che queste in lui prevalevano, e secondo i diversi oggetti che le eccitavano, Adriano si mostrò, a vicenda, principe eccellente, sofista ridicolo, e geloso tiranno. (p. 112)
  • Benché Pio avesse due figli, preferì il bene di Roma all'interesse della sua famiglia; diede la sua figlia Faustina in moglie al giovane Marco, gli ottenne dal Senato la potestà tribunizia e proconsolare, e disprezzando nobilmente, o piuttosto ignorando la gelosia, lo associò a tutte le fatiche del Governo. Marco, dall'altra parte, riveriva il carattere del suo benefattore, lo amava come padre, l'obbediva come Sovrano, e dopo la morte di lui resse lo Stato secondo l'esempio e le massime del suo predecessore. (p. 114)
  • Tito Antonino Pio era giustamente stato chiamato un secondo Numa. Lo stesso amore della religione, della giustizia e della pace, formava il carattere distintivo di questi due Principi. Ma la situazione dell'ultimo gli aprì un campo più largo all'esercizio di queste virtù. Numa poteva solamente impedire pochi vicini villaggi dal devastarsi scambievolmente le loro campagne. Antonino diffuse l'ordine e la tranquillità sulla maggior parte della Terra. Il suo regno è distinto dal raro vantaggio di fornire pochissimi materiali per la storia, la quale veramente non è quasi altro che il registro dei delitti, delle pazzie e delle sventure degli uomini. (pp. 114-115)
  • [Su Marco Aurelio] Rigido con sè stesso, compativa gli altrui difetti, ed era giusto e benefico con tutto il genere umano. (p. 116)
  • [Su Marco Aurelio] Detestava la guerra come il flagello dell'umanità; ma quando la necessità di una giusta difesa lo sforzò a prender l'armi, si espose coraggiosamente sulle gelate rive del Danubio a otto campagne d'inverno, il cui rigore tornò finalmente fatale alla sua debole complessione. (p. 116)
  • Tiberio e quegl'Imperatori, che adottarono le sue massime, procurarono di velare i loro assassinj con le formalità della giustizia, e forse gustavano un piacer secreto nel rendere il Senato complice e vittima insieme della lor crudeltà. Da questo corpo, gli ultimi degni d'esser chiamati Romani furon condannati per delitti immaginari o per reali virtù. (p. 122)
  • Una dolcezza naturale, che la rigida disciplina degli stoici non avea potuto distruggere, era la qualità più amabile, ad un tempo, e l'unico difetto pel carattere di Marco Aurelio. Il suo eccellente discernimento fu spesso ingannato dalla non diffidente bontà del suo cuore. (p. 124)
  • I vizj mostruosi del figlio hanno adombrato lo splendore delle virtù del padre. Si è rimproverato a Marco Aurelio di avere scelto un successore piuttosto nella sua famiglia che nella Repubblica, e sacrificata la felicità di milioni d'uomini alla sua eccessiva tenerezza per un indegno ragazzo. (p. 125)
  • Nato più debole che malvagio, divenne, per una semplicità ed una timidezza naturale, schiavo dei suoi cortigiani, i quali a poco a poco ne corrupper lo spirito. La sua crudeltà, che da prima fu l'effetto delle altrui suggestioni, degenerò in abito e pagina della storia è stata imbrattata di sangue civile; ma simili motivi non giustificano le crudeltà non provocate di Commodo, il quale godendo di tutto, niente aveva a desiderare. L'amato figlio di Marco successe al suo padre in mezzo le acclamazioni del Senato e degli eserciti. E quando ascese al trono questo giovane fortunato, non trovò nè rivali da combattere, nè nemici da punire. In quella tranquilla ed eccelsa fortuna dovea egli naturalmente preferire l'amore degli uomini alla loro detestazione, e le dolci glorie dei suoi cinque predecessori all'ignominiosa sorte di Nerone e di Domiziano. (pp. 128-129)
  • Commodo, sin da' suoi prim'anni, mostrò avversione a tutte le scienze ed arti liberali, ed eccessivo amore ai divertimenti della plebaglia, ai giuochi del circo e dell'anfiteatro, ai combattimenti dei gladiatori, ed alla caccia delle fiere. I maestri di ogni scienza, che Marco Aurelio procacciò al suo figlio, erano ascoltati con disattenzione e con noja; mentre che i Mori ed i Parti, che lo addestravano a lanciare il dardo, ed a tirar l'arco, trovavano in lui un attento scolare, il quale uguagliò ben presto i suoi più abili maestri nella giustezza della mira e nella destrezza della mano. (p. 139)
  • I contemporanei di Severo alla tranquillità ed alla gloria del suo Regno perdonarono le crudeltà, che lo condussero al trono. Ma i posteri, che provarono gli effetti funesti delle massime, e dell'esempio di lui, giustamente lo considerano come il principale autore della decadenza dell'Impero romano. (p. 188)
  • Le vie che menano alla grandezza, quantunque ripide e perigliose, possono però tener desto un animo attivo, mediante la coscienza e l'esercizio delle proprie sue forze; ma il possesso di un trono non può mai soddisfar pienamente una mente ambiziosa. Provò Severo, e riconobbe questa trista verità. (p. 189)
  • Severo, come la maggior parte dogli Affricani, era appassionato per li vani studj della magia e della divinazione, profondamente versato nell'interpretazione dei sogni e degli augurj, e dottissimo nella strologia giudiciaria, scienza che quasi in ogni secolo, fuori che nel nostro, si è sostenuta in dominio sopra lo spirito umano. (p. 189)
  • Il vecchio Imperatore avea spesso criticata la malaccorta indulgenza di Marco Aurelio, che con un solo atto di giustizia avrebbe salvati i Romani dalla tirannide dell'indegno suo figlio. Posto nelle circostanze medesime, provò quanto facilmente l'affetto di padre addolcisca il rigore di giudice. Egli deliberava, minacciava, ma non sapeva punire; e questo suo ultimo e solo esempio di clemenza fu di più danno all'Impero, che non la lunga serie delle sue crudeltà (p. 194)
  • [...] Caracalla si mostrò il nemico comune del genere umano. Lasciò la Capitale (né mai più vi fece ritorno) circa un anno dopo la morte di Geta. Passò il resto del suo regno nelle diverse province dell'Impero, particolarmente nelle orientali, ed ogni provincia divenne a vicenda il teatro della sua rapina e della sua crudeltà. I Senatori, forzati dal timore a secondare tutti i suoi capricci, erano obbligati di preparargli ogni giorno con immense spese nuovi divertimenti, che con disprezzo abbandonava alle sue guardie, e ad erigere in ogni città palazzi e teatri magnifici, ch'egli o sdegnava di visitare, o comandava che tosto fossero demoliti. Le più ricche famiglie furono rovinate con tasse e confiscazioni private, mentre il corpo intero dei sudditi era oppresso da ricercate e gravose imposizioni. (edizione Bettoni, cap. VI, p. 203)
  • [Su Caracalla] In mezzo alla pace, e per una leggierissima offesa egli comandò uno scempio generale in Alessandria di Egitto. Da un posto sicuro nel tempio di Serapide, contemplava e regolava la strage di molte migliaia di cittadini e di stranieri, senza avere riguardo alcuno al numero, o alla colpa di quegl'infelici; giacché (com'egli freddamente ne scrisse al Senato) tutti gli Alessandrini, e quelli ch'erano periti, e quelli che si erano salvati, meritavano ugualmente la morte. (edizione Bettoni, cap. VI, p. 203)
  • [Su Caracalla] Le savie istruzioni di Severo non fecero mai una impressione durevole sullo spirito del suo figlio, che sebbene non mancasse d'immaginazione e d'eloquenza, non avea né giudizio, né umanità. Caracalla ripeteva spesso una massima pericolosa degna di un tiranno, e da lui posta in pratica sempre: "assicurarsi l'affezione dei soldati, e poco valutare il resto dei sudditi". (edizione Bettoni, cap. VI, p. 204)
  • Un voluttuoso, che non abbia rinunziato alla ragione, segue con invariabil rispetto i moderati dettami della natura, ed accresce i diletti del senso col sociale commercio, coi dolci legami, e con i delicati colori del gusto e dell'immaginazione. Ma Elagabalo, (parlo dell'Imperatore di questo nome) corrotto dalle passioni della gioventù, dai costumi della sua patria, e dalla propria prosperità, si abbandonò ai piaceri più grossolani con isfrenato furore, e trovò presto la sazietà e la nausea nei mezzo dei suoi godimenti. (p. 218)
  • Il padrone del Mondo romano, affettando d'imitare le femmine nel vestito o nelle maniere, preferì la conocchia allo scettro, disonorò le prime cariche dell'Impero, distribuendole a' suoi numerosi amanti; uno de' quali ricevè pubblicamente il titolo e l'autorità di marito dell'Imperatore, o dell'Imperatrice, come ei da se stesso più propriamente si nominava. (p. 218)
  • [Su Eliogabalo] Il Senato dannò la memoria di lui a perpetua infamia, e la posterità ha ratificato questa giusta sentenza (p. 221)
  • I principj di una libera costituzione sono irrevocabilmente perduti, quando la potestà legislativa è creata dalla potestà esecutiva. (cap. III, 1820)
  • [La figura di Maggioriano] presenta la gradita scoperta di un grande ed eroico personaggio, quali talvolta appaiono, nelle epoche degenerate, per vendicare l'onore della specie umana. [...] Le leggi di Maggioriano rivelano il desiderio di fornire rimedi ponderati ed efficaci al disordine della vita pubblica; le sue imprese militari gettano l'ultima effusione di gloria sulle declinanti fortune dei Romani. (da Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano, capitolo xxxvi, §4, s.a. 457)
  • I diversi culti religiosi che si osservavano nel Mondo romano, erano tutti considerati dal popolo come egualmente veri; dal filosofo come egualmente falsi, e dai magistrati come egualmente utili. (1820, p. 42)
  • I venti e le onde sono sempre dalla parte dei navigatori più abili. (da Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano, capitolo LXVIII)
  • La corruzione, il sintomo più infallibile della libertà costituzionale.
  • Tutto ciò che è umano deve retrocedere se non progredisce.
  • Il teologo può indulgere nel piacevole compito di parlare della Religione come se discendesse dal Cielo, adorna della sua nativa purezza. Un dovere più malinconico si impone allo storico. Egli deve scoprire l'inevitabile miscuglio di errore e di corruzione in cui essa si è invischiata dopo un lungo soggiorno sulla Terra, tra una razza debole e degenerata di esseri. (da Storia della decadenza e caduta dell'impero romano; citato in Carl Sagan, Contact, p. 119)

Viaggio in Italia

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  • Abbiamo visto il palazzo di Marcellino Durazzo, in via Balbi. Si presenta con una facciata magnifica di venticinque finestre. Si entra in un Atrium aperto, sorretto da venticinque colonne che comunica con la scalinata e col giardino. Mi piace questo sistema, abbellisce la città volgendo sulla strada la facciata principale, e procura il beneficio di trovarsi sempre al coperto quando si scende di carrozza. Dà anche un'aria di gaiezza e di levità alla costruzione rompendo la massa di un grande edificio col lasciare intravvedere attraverso la casa, la prospettiva di un bel giardino. (p. 85)
  • Il Palazzo Durazzo si distingue più per il numero che per l'ampiezza delle stanze, piccole in genere, ma la ricchezza e il gusto moderno dell'arredamento dimostrano che casa Durazzo vive ora su un gran tono. V'è però una galleria graziosissima, illuminata da sette finestre su ogni lato, ma essendo queste vicinissime tra loro, la galleria ne appare rimpiccolita e gli ornamenti vi sembrano un poco ammassati gli uni sugli altri. Vi sono molte dorature, ma gli spazi tra le finestre sono decorati di statue e di specchi, racchiusi tra pilastri con capitello corinzio. (p. 85)
  • Siamo andati poi a vedere la chiesa di San Lorenzo che è la cattedrale di Genova. La facciata è di un pessimo gotico; di singolare ha soltanto i grandi quadrati di marmo bianco e nero collocati alternativamente che la compongono e offrono un colpo d'occhio tanto poco piacevole quanto poco comune. (p. 86)
  • Il ponte porta alla chiesa di Carignano che si presenta con una cupola innalzata fra due campanili di altezza eguale. Brutta idea! una costruzione massiccia fra due torri sottili sembra molto più piccola di loro. Così la cupola sembra schiacciata e comunica questa medesima impressione a tutta la chiesa. (p. 90)
  • Il colpo d'occhio del paese [Pegli] è molto ridente; stretti nel poco spazio che il mare e le montagne lasciano loro, gli abitanti hanno saputo trarne profitto per il diletto come per l'utile. I particolari sono meno interessanti; non v'è una casa o un giardino che meriti un particolare accenno. (p. 90)
  • Dopo essere tornati in città, abbiamo voluto vedere il Palazzo del Principe Doria. È una vecchia costruzione a un solo piano, troppo lunga che ora sembra orrenda e che non ha mai potuto essere bella. Il giardino non è che un grande parterre. Al centro v'è una vasca con un Nettuno nel suo carro. Mai visto nulla di più brutto come scultura. Vi sono, però, belle terrazze di pietra l'una sorretta dall'altra. Sono tutte affacciate sul mare e ci hanno dato un bellissimo spettacolo della città e del porto. (pp. 90-91)
  • Non ho visto che la chiesa di San Filippo Neri. È piccola ma sontuosa, i marmi, le pitture, gli ori straripano da ogni parte, ma vi si vedono più ricchezze che arte. L'oratorio presso la chiesa è molto più elegante. Ha la forma di una piccola cupola, bene illuminata e sorretta da pilastri che hanno il capitello dorato con molto buon gusto. (p. 111)
  • Fin dalla culla avevo sentito parlare della Venere de' Medici; i libri, le conversazioni, le stampe e le copie me l'avevano messa mille volte davanti agli occhi... Ma per conoscerla bisogna vederla... È la sensazione più voluttuosa che il mio occhio abbia provato. I contorni morbidissimi, una rotondità dolce e piena, la morbidezza della carne comunicata al marmo, e la fermezza che si desidera, anche, in questa carne resa senza durezza. (p. 209)[3]

Citazioni su Edward Gibbon

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  • Per Gibbon, esprimersi con chiarezza era un merito di gran lunga inferiore all'esprimersi in maniera scorrevole e concisa. (Edgar Allan Poe)
  1. Da Memorie, Per Niccolò Bettoni, Milano, 1825, [1]
  2. Alludendo a quel che dice Procopio di Cesarea riguardo all'uso "contro natura" che Teodora faceva del suo corpo.
  3. Citato in Attilio Brilli, Viaggiatori inglesi e americani nella Città del Fiore; in Emanuele Kanceff, Attilio Brilli, Giorgio Cusatelli, Renato Risaliti, Silvia Meloni Trkulja, Mara Miniati e Maurizio Bossi, Firenze dei grandi viaggiatori, a cura di Franco Paloscia, Edizioni Abete, Roma, 1993, pp. 69-70. ISBN 88-7047-053-9

Bibliografia

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  • Edward Gibbon, Declino e caduta dell'Impero Romano, a cura di Dero A. Saunders, traduzione di Michele Lo Buono, Mondadori 1986.
  • Edward Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano, traduzione di Giuseppe Frizzi, Einaudi, 1987.
  • Edward Gibbon, Storia della decadenza e rovina dell'Impero Romano, traduzione di Davide Bertolotti, Milano, per Nicolo Bettoni, 1820-1824.
  • Edward Gibbon, Viaggio in Italia, Edizioni Del Borghese, Milano, 1965
  • Carl Sagan, Contact, traduzione di Fabrizio Ascari, Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogni, Etas, S.p.a, 1986.

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