Alberto Fortis (al secolo Giovanni Battista Fortis) nacque a Padova nel 1741, terzogenito di quattro figli. Dopo la morte del padre le insorte difficoltà economiche familiari lo fecero ammettere gratuitamente nel seminario vescovile di Padova, dove subito mostrò vivaci doti di ingegno e una versatile curiosità alle quali non fu estranea l’educazione ricevuta dalla mamma, donna intelligente e colta, che nel suo secondo matrimonio promosse un cenacolo di studiosi e letterati patavini da cui, ancora giovanissimo, egli poté ricevere i primi orientamenti alle conoscenze umanistiche.
Nel 1757 entrò nell’Ordine degli Eremitani di S. Agostino forse più per assecondare il proprio carattere speculativo che per reale vocazione, e si applicò alla teologia, trovando però anche il tempo per le prime escursioni e i primi scritti di carattere geologico. Le sue elevate qualità intellettuali non sfuggirono ai superiori, che nel 1766 lo chiamarono a Roma per avviarlo a più progrediti studi teologici, che il Fortis però apertamente disattese per dedicarsi all’erudizione profana, in particolare connessa con le lingue antiche, l’antiquaria e le predilette scienze naturali. L’urto con le gerarchie non tardò a venire, e l’anno successivo egli rientrava nel Veneto dopo aver dismesso l’abito talare e assunto quello di abate, più consono al suo spirito indipendente.
In patria presto si mise a collaborare in modo assiduo e costante, anche in qualità di redattore, con le migliori testate del giornalismo letterario e scientifico del tempo, che ne rivelarono la tempra di divulgatore entusiasta delle idee illuministiche, e lo distinsero per il rigore delle argomentazioni oltre che per il piglio polemico e battagliero. Lavorando fin dal 1768 all’“Europa Letteraria”, giornale politico e culturale d’avanguardia, entrò in sintonia intellettuale e affettiva con Elisabetta Caminer Turra; il sodalizio, destinato a protrarsi nella comune esperienza collaborativa al “Giornale Enciclopedico”, sarebbe durato un ventennio, e ne è rimasta eco nei Versi d’amore e d’amicizia, apparsi nel 1783 e unica testimonianza poetica lasciata dal Fortis.
Benché assorbenti e impegnative, queste attività non lo distolsero dalle indagini naturalistiche sul campo, per le quali nel 1770 intraprese un viaggio in Dalmazia assieme a J. Symonds e D. Cirillo, che fu il primo di tre soggiorni, finanziati da mecenati inglesi e dal senato veneto. Partito da Venezia nell’estate, poté visitare solo alcune isole della costa dalmata, ma il materiale raccolto gli fu sufficiente per comporre il Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso e Osero. Più lungo e approfondito fu il secondo viaggio, effettuato l’anno dopo con lord F.A. Hervey, vescovo di Londonderry, al termine di un breve soggiorno nel Napoletano, dove entrambi si erano recati per studiare i fenomeni vulcanici approfittando di una spettacolare eruzione del Vesuvio. Il terzo viaggio fu compiuto nell’estate del 1773, su incarico del Senato veneziano con il compito di analizzare le cause del degrado della pesca litoranea, e di suggerire i possibili rimedi. Dalle relazioni che trasse dai due viaggi il Fortis ricavò l’opera sua più nota e apprezzata, il Viaggio in Dalmazia.
Il 1775 lo vide affrontare un’altra lunga uscita, stavolta sotto la supervisione scientifica di J. Strange, ambasciatore britannico a Venezia, con lo scopo di studiare i vulcani estinti dell’Italia centrale e accrescere le cognizioni sul dibattuto problema dell’origine del basalto.
Tornato infine in patria, parve che per lui fosse imminente la chiamata alla prestigiosa cattedra di Storia naturale nell’ateneo patavino, ma a vanificarla concorsero il clima politico nel quale il Fortis sempre meno si riconosceva, un ambiente accademico retrivo e refrattario alle sue teorie innovative, e il proprio carattere, non facile né accomodante. Profondamente deluso, meditò allora di ritirarsi nel piccolo podere acquisito coi proventi del Viaggio in Dalmazia, ma la voglia di viaggiare riprese presto il sopravvento.
Nel 1780 lo troviamo dapprima a Spalato, poi in Puglia e quindi a Napoli, dove venne ben accolto nel circolo di intellettuali che si riuniva dal duca di Belforte, e vi poté frequentare i più giovani illuministi napoletani, condividendone gli ideali di riforma. Da lì raggiunse la Sicilia dove salì sull’Etna, e nel ritorno visitò le Eolie per approfondire le sue conoscenze vulcanologiche.
Dopo un triennio trascorso a casa, nell’autunno del 1783 tornò di nuovo nel Regno di Napoli, e lì scoprì che la roccia tufacea e calcarea di alcune grotte nel Molfettano produceva spontaneamente grandi quantità di salnitro, elemento essenziale per la produzione della polvere da sparo. Ciò gli valse l’incarico di consulente mineralogico del sovrano, e in tale veste tentò di riorganizzarne la produzione; senonché le nuove direttive riformiste da lui promosse per modernizzarla e migliorarla si scontrarono con i consolidati interessi degli imprenditori e degli appaltatori, le cui accese reazioni portarono addirittura a negare la validità della sua scoperta e, dopo diversi spiacevoli episodi, nel 1790 lo costrinsero a dimettersi, nonostante l’appoggio dei sovrani, del primo ministro Acton e della più progressista classe dirigente siciliana.
Di nuovo in Veneto, il Fortis vi riprese attivamente gli studi naturalistici, aprendosi a nuovi o intentati filoni di ricerca nel campo della paleontologia, nell’utilizzo industriale dei combustibili fossili, e nella rabdomanzia, allora appena agli inizi e per la quale organizzò riunioni ed esperienze cognitive. Ma le accuse di giacobinismo che sempre più spesso gli venivano rivolte per le proprie idee libertarie propugnate anche sulla spinta delle campagne napoleoniche, lo portarono a temere per sé e nel settembre del 1796 lo indussero a partire per Parigi.
Salvo brevi rientri, qui rimase fino all’inoltrato 1798, venendo in contatto con i più bei nomi della politica e della cultura francese, e godendo dell’amicizia degli scienziati più prestigiosi dell’epoca. Entrò pure nella stima di Napoleone, che lo nominò “custode” della biblioteca delle Scienze di Bologna, dove si stabilì nell’ottobre 1801.
Ormai stanco e malato, nel capoluogo felsineo avrebbe atteso con solerzia al nuovo compito fino al termine dei suoi giorni, nel 1803.
Assieme agli instabili umori di un’indole inquieta, la ricchissima bibliografia del Fortis riflette la poliedrica versatilità di uno studioso di vasti interessi scientifici specialmente nelle scienze naturali e nella geologia, discipline nelle quali egli continua a occupare un posto ragguardevole per il pionierismo di molte sue ricerche affrontate con avanzata metodologia di lavoro. Tuttavia la sua rinomanza è oggi principalmente letteraria, e affidata al Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso e Osero (Venezia, 1771) e soprattutto al Viaggio in Dalmazia (Venezia, 1774), un libro che fece epoca nella letteratura di viaggio, perché per la prima volta dischiudeva un angolo periferico dell’Europa balcanica fino allora pressoché incognito. Redatta in forma epistolare secondo l’uso del tempo, e tradotta nelle principali lingue europee, l’opera fu apprezzata perché al gusto della divulgazione scientifica semplice e chiara, univa in mirabile equilibrio un garbo e una vivacità descrittivi che conseguivano alla raffinata cultura umanistica del suo autore; ma a decretarne la fortuna non furono nemmeno estranei ambienti e figure (quali Goethe ed Herder) che riservavano crescente attenzione verso quelle manifestazioni delle culture nazionali che proprio in quel periodo cominciavano ad alimentare le pulsioni preromantiche.
Riferimenti bibliografici: sulla figura e l’opera di Alberto Fortis le informazioni biografiche più complete ed esaurienti si trovano nella voce di L. Ciancio nel Dizionario Biografico degli Italiani, 49, Roma 1997, pp. 205-210, e nel profilo di G. Torcellan, in Illuministi italiani. VII: Riformatori delle antiche Repubbliche, Milano-Napoli 1965, pp. 281-309 (poi in Settecento veneto e altri scritti storici, Torino 1969, pp. 273-301); utile anche la più breve introduzione di E. Bonora, Letterati, memorialisti e viaggiatori del Settecento, Milano – Napoli 1951, pp. 979-980. Sul ruolo che gli compete nell’ambito delle correnti illuministiche italiane, si vedano le considerazioni di F. Fido e M. Capucci, nella Storia della Letteratura Italiana diretta da E. Malato (VI, il Settecento), Roma 1998, pp. 557-558 e 733.
Nota biografica a cura di Giovanni Mennella